Ora serve una Ue a due velocità
di Mario Deaglio
Basta con l’Europa delle quote latte, dei cavilli, delle burocrazie, che va avanti con una costituzione che non c’è e con un governo che non c’è; che ha saputo fare una moneta ma non sa fare una politica economica; che pone ai propri vertici burocrati anziché politici di primo piano.
Un’Europa che sembra spesso mettere ipocritamente alla pari colossi come Francia e Germania con Paesi come l’Estonia, i cui abitanti starebbero tutti in un quartiere di Parigi. Se lo scossone assestato dalle difficoltà greche, spagnole e portoghesi alle Borse europee determinerà una svolta che ci allontana dalla falsa normalità di questi anni sarà almeno servito a qualcosa.
Ben pochi avrebbero pensato, anche solo un mese fa, che il Vecchio Continente si sarebbe gradatamente spostato verso l’occhio del ciclone economico-finanziario che ci assilla da quasi tre anni e che l’euro si sarebbe rivelato debole e il dollaro incredibilmente forte.
Gli europei, che sono certamente vecchi e che troppo spesso per questo si ritengono saggi, guardavano alla crisi americana dall’alto in basso; oggi si trovano platealmente snobbati dal giovane presidente degli Stati Uniti che, sull’onda del rialzo del dollaro, annulla il normale vertice con l’Unione Europea perché con l’Europa non c’è proprio nulla da discutere, perché l’Europa è un interlocutore fantasma.
Ci si aspettava che dovesse arrivare l’«ora della verità» per il dollaro e per gli Stati Uniti, e invece è arrivata l’ora della verità per la giovane moneta europea, fino a pochissimi giorni fa sicura della sua forza e ora minata dalla crepa spagnola e dalla crepa irlandese.
La crisi delle finanze pubbliche spagnole ha infatti posto in luce una serie di gravi debolezze strutturali della costruzione economica europea.
Non esiste alcuna previsione per la possibile uscita - o espulsione - di un Paese dall’area dell’euro; parallelamente non è ben chiaro se, e a quale titolo, altri Paesi o la stessa Banca Centrale possano dare un aiuto finanziario sostanzioso a un Paese in difficoltà.
L’Eurostat, cui compete il controllo e l’armonizzazione delle statistiche e dei conti pubblici europei, aveva già denunciato i trucchi contabili di Atene nel 2004, ma non se ne fece nulla. Molte azioni comuni europee aggiungono complicazioni burocratiche, più che portare a vantaggi per produttori e consumatori.
Per queste debolezze strutturali, prima ancora che per la forza della speculazione, l’euro si è indebolito in maniera consistente nelle ultime settimane, dando maggior forza alle paure di nuove correnti inflazionistiche che, potrebbero derivare dall’aumento dei prezzi delle materie prime, espressi in dollari oggi più cari.
In queste condizioni, qualche forma di «Europa a due velocità» sembra inevitabile. Il vertice franco-tedesco svoltosi due giorni fa a Parigi, che sembrava un incontro quasi di routine, potrebbe essere l’inizio di una rifondazione europea secondo questa linea: non soltanto i due Paesi rappresentano assieme un po’ meno di un terzo della popolazione dell’Unione e un po’ più di un terzo della sua produzione, ma l’Europa, nata dalla paura di una ripresa del loro conflitto storico, potrà essere rilanciata soltanto da una ripresa della loro stretta collaborazione, che data da oltre mezzo secolo e attorno alla quale l’Unione Europea è stata costruita pezzo dopo pezzo.
E’ necessario che qualcuno mostri la strada di una vera armonizzazione delle politiche economiche, di un coordinamento delle politiche industriali, anche se non tutti gli altri Paesi potranno o vorranno seguire subito. Un’«Europa a due velocità» potrebbe diventare inevitabile almeno in economia, ed è sembrato di cogliere qualche segnale in tal senso dal vertice parigino.
E il «commissariamento» della Grecia deciso a Bruxelles potrebbe essere il primo passo di una nuova politica economica più costrittiva nei confronti dei governi nazionali che non seguano le regole concordate.
E l’Italia? Se si sommano popolazione e prodotto lordo italiano a quelli franco-tedeschi si ottiene all’incirca la metà del totale europeo. In questo senso l’Italia potrebbe dare un appoggio importante, limitato però dal peso gravoso del suo debito, a una rifondazione della politica economica europea.
Va dato atto ai ministri dell’economia che si sono succeduti nell’ultimo decennio di aver complessivamente gestito in maniera soddisfacente un debito che poteva destabilizzare l’economia e di aver resistito a forti pressioni bipartisan per ogni genere di aumenti di spesa che l’Italia non si poteva permettere.
Un’Italia che ha tratto grande beneficio in questi anni tempestosi dall’«ombrello» dell’euro non può che collaborare a turare i buchi che si sono improvvisamente aperti in quest’ombrello, anche perché deve essere conscia della possibilità di divenire essa stessa bersaglio di attacchi speculativi. Se la prima, traballante linea greco-spagnola dovesse scricchiolare ancora, occorrerebbe vigilare strettamente perché il debito pubblico italiano mantenga la sua attuale reputazione; e senza una buona reputazione, il rifinanziamento del debito in scadenza diventerebbe molto più costoso.
Per questo, i dati sorprendentemente buoni dei conti pubblici di gennaio sono una manna piovuta dal cielo. Né gli europei né gli italiani possono però vivere di sola manna: invece di schiacciarci sul giorno per giorno, dobbiamo ricominciare con ragionamenti e politiche di lungo periodo. Le sole che possano permetterci di cercare di progettare il nostro futuro anziché subirlo.
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
www.lastampa.it