I treni della felicità, quando il Nord salvò i figli del Sud
Nel dopoguerra migliaia di famiglie del nord salvarono dalla fame e dalla miseria 70mila bambini del sud. Il documentario Pasta Nera, presentato a Venezia, ci racconta la loro storia
di Carlo Di Foggia*
Nel difficile panorama dell’Italia centocinquantenaria, capita spesso di guardarsi indietro con nostalgia, attingendo alla grande tradizione popolare del nostro Paese.
Succede allora che dal bagaglio della memoria affiorino storie di iniziative incredibili e molto spesso dimenticate, come quella che quasi settant’anni fa unì nord e sud in uno slancio di solidarietà che permise di salvare un’intera generazione di bambini: 70mila figli del sud e delle miserie del conflitto, ospitati durante i durissimi inverni del dopoguerra da famiglie di lavoratori emiliani, romagnoli, toscani e liguri. Un’accoglienza inizialmente prevista per pochi mesi ma che in molti casi si protrasse più a lungo, a volte per anni. Alcuni di loro vennero addirittura adottati dalle famiglie di cui furono ospiti.Ora il documentario Pasta Nera - firmato dal regista barese Alessandro Piva (La capa gira e Mio cognato) e presentato alla sessantottesima mostra del cinema di Venezia nella sezione controcampo - ci racconta la loro storia.
Quella di Americo, Dante, Erminia e delle migliaia di bambini che viaggiarono tra il 1945 e il 1951 su quelli che vennero chiamati “i treni della felicita”. Un viaggio verso nord che nessuno di loro ha dimenticato e che ha cambiato la loro vita per sempre.
Ad accoglierli un mondo lontano anni luce da quello lasciato a casa: troppo diversa la vita di un piccolo coltivatore o di un artigiano emiliano da quella di un bracciante del mezzogiorno, dove si viveva del lavoro di una giornata e si mangiava una volta al giorno.
I racconti e le voci dei protagonisti di allora, oggi anziani e le immagini di repertorio donate da Cinecittà Luce (fusione tra Cinecittà e lo storico Istituto) - che insieme a Rai Educational e alla Seminal Film, ha collaborato alla produzione del documentario - ci restituiscono una straordinaria pagina di storia politica e civile del nostro paese, finora poco approfondita e sopravvissuta principalmente nei ricordi di chi quell’esperienza la visse in prima persona.
E se nell’aprile del 2002 lo stesso Piva e l’antropologo e studioso di storia orale, Giovanni Rinaldi non ne fossero venuti a conoscenza per puro caso, girando un documentario per la Rai sulla rivolta dei braccianti di San Severo di Puglia (marzo 1950), chissà per quanto tempo ancora questa storia sarebbe rimasta relegata nel buio di un archivio o custodita esclusivamente nella memoria dei suoi protagonisti.
I figli di quei braccianti infatti - quasi tutti arrestati alla fine di una giornata convulsa che contò anche un morto - raccontarono, di essere stati ospitati durante il processo ai loro genitori, da famiglie di Lugo di Romagna, Ancona, Follonica e Ravenna.
È iniziata così la ricerca di quei bambini e presto i due studiosi si sono accorti di avere ricostruito solo un piccolo tassello di una vasta organizzazione, messa in piedi dall’Udi e dalle donne del Pci, che dal 1945 al 1951 salvò più di 70mila bambini, alcuni provenienti anche dai grandi centri urbani del nord, come Milano e Torino, semidistrutti dai bombardamenti alleati e dalle zone disastrate dalle calamità naturali come il Polesine dopo la terribile alluvione del novembre del ‘51.
Una ricerca portata avanti in primis da Giovanni Rinaldi, che ha raccontato questa storia in un bellissimo libro e confluita poi nel documentario, per la cui realizzazione ci sono voluti oltre tre anni e la ricerca estenuante dei finanziamenti, “che per la verità - confesssa lo stesso Rinaldi - sono stati pochi.
“Una storia - ci dice lo studioso - che ci ricorda che non esistono nord e sud ma esiste solo l’Italia. Un insegnamento che acquista ancora più valore in un momento come questo, dove assistiamo allo sbarco di migliaia di disperati e abbiamo dimenticato il valore dell’accoglienza”.
Pochi giorni fa, ad esempio, un’inchiesta dell’Espresso ha svelato le difficili condizioni in cui si trovano i figli dei migranti all’interno del centro di detenzione di Lampedusa.
Protagonisti i bambini quindi ma non solo. Questa è una storia che parla anche di donne, “perché - spiega Piva - le donne della sinistra italiana hanno dovuto combattere pregiudizi presenti anche tra i loro compagni”.
Questa straordinaria iniziativa di solidarietà si deve soprattutto a loro, e alle famiglie dei lavoratori del nord che aprirono le loro porte ai bambini meridionali, vestendoli e curandoli come fossero figli propri. “Non ci hanno mai trattato da estranei - spiega uno di loro nel documentario - noi eravamo come un famigliare aggiunto”.
Lo stupore è forse il ricordo rimasto più impresso nella memoria, soprattutto per chi proveniva dalle zone più arretrate del meridione:
“Quando mi sono svegliato e siamo usciti, mi hanno offerto un gelato, il primo gelato mangiato in vita mia - racconta Americo, che scelse di non tornare, rimanendo a vivere dalla famiglia che lo aveva ospitato - tanto è vero che quando mi hanno dato il cono con la panna dicevano: Ti piace?, Sai che gli ho detto? ‘Assemigghia a’ recotte’, sembra una ricotta. Perché io mangiavo la ricotta giù, non conoscevo i gelati”.
I suoi genitori lo avevano chiamato così perché erano cresciuti con il mito dell’America, la speranza di poter un giorno emigrare verso un mondo migliore. Americo il suo sogno lo ha realizzato lasciando la sua San Severo, in Puglia.
Non ha solcato l’oceano a bordo di un transatlantico per Ellis Island ma ha preso un treno diretto a nord, nel 1950, quando aveva solo sei anni.
Difficile comprendere appieno il significato che quell’esperienza ebbe sulle vite di quei bambini. “Fu un incontro fra due culture diverse - ha scritto Miriam Mafai - due diversi modi di parlare, di mangiare e di vivere”.
A distanza di quasi 70 anni però, non tutto è andato perduto: ''Le famiglie che ci hanno ospitato, aprendoci le loro case - spiega ancora il regista - ci hanno restituito un senso della dignità e dell'accoglienza, questo ci spinge a pensare che il Paese ha ancora stratificato un sistema di valori forte''.
Una storia insomma, che nel centocinquantesimo dell’unità d’Italia, in un periodo in cui si torna a parlare di nord e sud come due entità separate, meriterebbe di essere ricordata.
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