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Sant’Equizio nasce intorno al 480 e muore nel 570 / 571,  monaco e con San Benedetto da Norcia, si può considerare il padre e il diffusore del monachesimo in Italia e in Occidente.

Visse nella provincia Valeria (L'Aquila-Rieti-Tivoli).

Si festeggia l’11 agosto.

Co-patrono dell’Aquila insieme a San Massimo, San Bernardino da Siena, Papa Celestino V

Non si hanno grandi notizie della sua vita.

L'unico che ne parla è San Gregorio Magno nei suoi Dialoghi (I,4), dove ricorda il sepolcro del santo abate «...presso l'oratorio di San Lorenzo...» in Marruci di Pizzoli.

Equizio, dopo la sua morte, fu sepolto nel suo monastero, nell'attuale cripta che si trova nella chiesa parrocchiale di San Lorenzo in Marruci.

Il monastero subì una distruzione da parte dei longobardi poco dopo la sua morte.

Questa distruzione non comportò la profanazione della tomba del santo tanto che negli anni successivi fu oggetto di venerazione e meta di pellegrinaggi.

Dovettero passare nove secoli perché ci si ricordasse di Equizio, precisamente quando, nel 1461, furono ritrovate le sue spoglie e traslate nella chiesa di San Lorenzo all'Aquila.

In quel periodo la venerazione per il santo fu così viva e grande che la città lo nominò suo secondo patrono del "quarto di San Pietro a Popleto", e, successivamente, compatrono dell'intera città ed effigiato nello stendardo ufficiale insieme a San Massimo, Papa Celestino V e San Bernardino da Siena.

Dopo il terremoto del 1703, danneggiata la chiesa di San Lorenzo, le reliquie furono traslate, nel 1785, nella chiesa di Santa Margherita della Forcella, dei padri gesuiti, dove attualmente sono custodite in un sarcofago di marmo in una delle cappelle laterali che porta il suo nome.

Dal Martirologio Romano: «Nel territorio dell'odierna Umbria, Sant'Equizio, abate, che, come scrive il papa san Gregorio Magno, per la sua santità fu padre di molti monasteri e, ovunque giungesse, schiudeva la fonte delle Sacre Scritture».

Sant’Equizio Amiternino, e le sue peregrinazioni postsismiche

di Fulvio Giustizia *

Il monaco Sant’Equizio amiternino, vissuto fra il 480 e il 550 nell’odierno comune di Pizzoli, nel borgo  di San Lorenzo di Marruci, presso L’Aquila, fu padre fondatore e coordinatore di numerosi monasteri nell’area della Sabina e della Valle dell’Aterno, avendo rivestito l’importante ruolo di precursore e ispiratore del movimento monastico italico, la cui regola fondata su alcuni punti basilari - come la preghiera, la lettura della Scrittura, la mortificazione, il lavoro manuale e intellettuale, l’evangelizzazione -  sarà in gran parte ripresa e canonizzata da San Benedetto da Norcia.

Circa il lavoro, come ha ben osservato il Marinangeli, è peculiare in Equizio la componente della fatica comunitaria dei monaci in mezzo ai contadini, senza possedere, come sarà per i Benedettini, un  proprio fondo autonomo legato al monastero.

E questo era un modo nuovo di evangelizzare, condividendo le sorti dei villici che, ancora nel VI secolo, erano legati alla terra e tenuti in stato di schiavitù.

Notevole era il lavoro intellettuale, come si deduce dalla presenza di uno scriptorium con relativi copisti, nel monastero pizzolano di San Lorenzo, in cui viveva Equizio.

La sua evangelizzazione, già efficace per la condivisione nel lavoro dei campi, era messa in opera con il sussidio delle Sacre Scritture che portava sempre con sé, mediante una specifica  predicazione, secondo un mandato ricevuto dal cielo, una circostanza questa che gli procurò la singolare persecuzione dagli organi ufficiale della Chiesa, forse negli anni 535-536.

Si sa che la lingua degli adulatori uccide, blandendola, l’anima di coloro ai quali fa piacere ascoltarli.

Ebbene, in quel tempo alcuni ecclesiastici fecero le loro rimostranze, con chiare adulazioni, al vescovo di questa sede apostolica, dicendogli: “Chi è questo zoticone, che si è arrogato il diritto di predicare e presume, ignorante com’è, di usurpare il ministero della parola proprio del nostro Pastore?

Si mandi, dunque, se crede, qualcuno che lo conduca qui, così che conosca la forza e il rigore dell’autorità ecclesiastica” ».

Il papa acconsentì alla richiesta dei delatori e incaricò un certo Giuliano, in seguito vescovo della Sabina, di andare da Equizio per condurlo, con il dovuto riguardo, a Roma.

Pervenuto in fretta al monastero di San Lorenzo, lo zelante messo papale non trovò in casa il sant’uomo.

Chiese a dei monaci copisti al lavoro dove fosse l’abate.

Gli risposero: «In questa valle, che si adagia ai piedi del monastero; sta falciando il fieno».

Giuliano mandò un servo a cercarlo. Questi, sceso giù per i prati e, avvistato un gruppo di falciatori li apostrofò con malcelata arroganza chiedendo gli si indicasse chi fosse Equizio.

Non appena ebbe modo di avvicinarlo, il servo perse tutta la sua baldanza e andò tutto tremante a prostrarsi ai suoi piedi e «con molta umiltà gli strinse tra le braccia le ginocchia baciandole», riferendogli il motivo della sua venuta.

Senza scomporsi, Equizio, per tutta risposta, considerando la fatica, per il lungo viaggio,  dei cavalli  degli ospiti, si premura di ordinare al servo di prendere per loro del fieno verde appena falciato.

«Quanto a me - soggiunse l’abate - giacché mi rimane poco da fare, termino il lavoro e ti seguo».

Si noti come in questa sapiente quanto sottile ironica descrizione gregoriana, vi sia magistralmente rappresentato  l’incontro fra due culture, quella umile concreta sana paziente, non schiava del tempo, del mondo della campagna e quella di un ambiente cittadino agitato frenetico, oltre che vanamente e inutilmente legalistico.

La concitazione della delegazione papale che cozza contro la calma olimpica dell’abate, la si legge meglio nel testo originale latino: nel “festine cucurrit” di Giuliano al monastero, nell’ordine al servo di condurgli Equizio subito “sub celeritate”, e infine nel servo che entra “velociter” nel prato dei falciatori.

Nel prosieguo del racconto si può notare inoltre la perdita di pazienza di Giuliano, con un attacco d’ira che lo fa gridare per il ritardo del servo, perché se lo vede tornare carico di un sacco di fieno.

«Nel frattempo l’incaricato di quella missione, il difensore Giuliano, si chiedeva con grande stupore perché mai il suo servo tardasse tanto a tornare.

Ad un tratto lo scorse: veniva portando sul collo il fieno preso nel prato. Andò su tutte le furie ed incominciò a gridare: “Che è questo? Ti ho ordinato di condurre qui un uomo, non di portarmi del fieno!”.

Il servo gli rispose: “Colui che cerchi , ecco che mi viene appresso”. Infatti l’uomo di Dio lo seguiva con le sue calzature chiodate (scarponi da montagna) e la falce sulle spalle  (…)

Giuliano, non appena vide Equizio, lo disprezzò per quel suo aspetto tanto dimesso e, altezzoso, si preparava ad apostrofarlo.

Ma non appena il servo di Dio gli fu vicino, Giuliano fu preso da un invincibile spavento, tanto da tremare, e a mala pena, farfugliando, riuscì a lasciargli intendere il perché della sua venuta. Fattosi umile, corse a gettarsi alle sue ginocchia, gli chiese di pregare per lui e gli riferì che suo Padre, il Pontefice Romano, lo voleva incontrare».

L’incontro non ebbe luogo perché il Papa, avvisato da una visione soprannaturale, che lo convinse della presunzione avuta nel mandare a prendere quell’uomo di Dio, mandò un messaggero a Giuliano con il contrordine di non toccare il servo di Dio e di guardarsi bene dall’allontanarlo dal monastero.

Equizio rimase nel suo monastero di San Lorenzo di Marruci anche dopo la sua morte, avvenuta intorno al 550, ma dall’epoca dell’invasione longobarda del 571-572 nel nostro territorio, si perdono le tracce della sua sepoltura.

Soltanto 800 anni più tardi, in occasione di un disastroso terremoto nell’Aquilano, fu possibile rinvenirne il sepolcro con le sacre spoglie.

Sant’Equizio e gli ultimi grandi terremoti aquilani.

Per un particolare disegno divino, il Santo monaco Equizio si è trovato a vivere in prima persona, come da sfollato, i disastrosi terremoti del 1461-62, del 1703, del 1915 e del 2009.

Infatti, dopo il rinvenimento del suo sepolcro a Marruci  nel 1461, la città dell’Aquila ne reclama il corpo per sistemarlo nella chiesa intra moenia di San Lorenzo di Pizzoli e, in seguito, si premura anche di eleggere il santo come co-patrono della città.

Nel secolo XVI  lo si vedrà raffigurato nel Gonfalone aquilano insieme a San Massimo, Papa Celestino V e San Bernardino da Siena.

Nel 1703, il sepolcro del Santo, nonostante i danni di un nuovo sisma è ancora presente nella chiesa aquilana di San Lorenzo, ma ottantadue anni più tardi e precisamente nel 1785, diventata inagibile la chiesa che lo ha ospitato per oltre trecento anni, si mette in atto una nuova traslazione, scegliendo la centralissima chiesa del Gesù, o di Santa Margherita, già dei Gesuiti, che avevano dovuto abbandonarla in seguito alla recente soppressione dell’Ordine nel luglio del 1773.

La Chiesa ritornerà ai Gesuiti alla fine del 1840 e la terranno fino agli inizi di settembre del 1860, quando verrà loro sottratto il Real Liceo e saranno quindi costretti a lasciare la città.

Tornando alla traslazione del 1785, un anno dopo questa data fa bella mostra di sé il sepolcro marmoreo equiziano a Santa Margherita, con un’urna coperta da una espressiva  tavola dipinta che rappresenta il Santo in atto di sorreggere e sollevare al cielo, con entrambe le mani, la città dell’Aquila cinta di mura, rappresentata dal Palazzo di città, il Palazzetto dei Nobili e la chiesa di Santa Margherita, in pratica il cuore pulsante del centro storico.

Quello che attrae la nostra attenzione è un curioso particolare, che non ci saremmo aspettato di vedere: la torre di Palazzo ancora troncata nella sua parte superiore, dopo ben 82 anni dal sisma!

Eppure, nella Relazione del 10 maggio del Camerlengo aquilano, inviata al viceré di Napoli, si affermava che «già si erano disposti gli accomodamenti del  Real Castello e Palazzo della detta Città…».

Nel 1915 in seguito al terremoto di Avezzano il nostro Santo si trova ancora una volta a subirne i disagi: la chiesa di Santa Margherita, che era diventata sede della parrocchia di San Lorenzo, dichiarata inagibile per i danni del sisma, viene  adibita a deposito.

Nel 1927, con il ritorno dei Gesuiti in città, la chiesa viene riaperta e restituita al culto.

Seguono ottantadue anni di tranquillità.

Il Santo patrono dell’Aquila riposa nel suo solito sepolcro marmoreo della seconda cappella di destra, guardando l’altare maggiore,  ma il suo culto è pressoché dimenticato.

Nell’agosto del 2008, i Gesuiti abbandonano per l’ennesima volta l’Aquila e la Chiesa di Santa Margherita torna in possesso della Diocesi.

Il 25 settembre 2008, l’associazione culturale “Aternus-Valle dell’Aterno”, presieduta dal compianto Beppe Navarra, organizza nella chiesa un convegno dal titolo “Sant’Equizio e i suoi tempi”, con interventi di Gaetano Messineo dell’Università dell’Aquila, Alessandra Cerrito, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, di Fulvio Giustizia, archeologo e dello storico Elpidio Valeri.

In conclusione la santa messa solenne in onore di Sant'Equizio celebrata dall’Arcivescovo Metropolita dell’Aquila Mons. Giuseppe Molinari.

Con lo sguardo di poi, questo incontro di studio, che aveva l’intento di rinverdire il culto cittadino verso questo grande Santo, si è rivelato come un ultimo saluto rivoltogli dalla cittadinanza, prima che abbandonasse di lì a pochi mesi la sua Aquila, nel post sisma del 6 aprile 2009.

Infatti Sant'Equizio è ritornato a Marruci nei pressi del suo primo monastero di San Lorenzo, da dove, in comunione con  i tanti cittadini sfollati che hanno dovuto abbandonare il centro storico, continua a benedire e proteggere una città che deve rinascere.

*Fulvio Giustizia, archeologo paletnologo e storico di cose abruzzesi, è nato nel 1939 a Calascio

Vive e lavora all’Aquila.

È Socio Ordinario dal 1982 della Deputazione di Storia Patria negli Abruzzi e Deputato dal 1995.

Conseguite la Laurea in Lettere nel 1978 all’Università “La Sapienza” di Roma, e la Specializzazione in Archeologia Preistorica nel 1980 presso l’Università di Pisa, si è dedicato, ad una sistematica ricerca paletnologica nell’Abruzzo interno, pervenendo alla scoperta di inediti siti preistorici, fra i quali I Grottoni di Calascio, con reperti dell’uomo di Neanderthal.

Dal 1989 ad oggi, affiancando la ricerca storica ed archeologica alla sua ordinaria attività di docente di Storia dell’Arte nei Licei, si è interessato anche di storia medievale nel territorio aquilano. Dal 2001 collabora con il CAI dell’Aquila, organizzando percorsi culturali intitolati “Itinerari archeologici di montagna”.

Pubblicazioni principali: Gli ultimi giorni di Solutré, in «Mondo Archeologico», n.10, Firenze 1976, pp.26-33; La Grotta dei Piccioni.

Un santuario della preistoria abruzzese, ivi, n.23, pp.45-51, n.24, pp.29-35, Firenze 1978; Paletnologia e Archeologia di un territorio, Roma 1985; Santa Maria Paganica.

La riscoperta di un importante archivio aquilano, in «Bollettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», a. LXXVIII (1988), pp. 191-273; Notizie archeologiche dell’agro di Carapelle dalla preistoria all’epoca romana, in AA.VV., Homines de Carapellas.

Storia e archeologia della Baronia di Carapelle, L’Aquila 1988, pp.7-39; Un insediamento monastico camaldolese a Campo Imperatore, in AA.VV., La Provincia dei Parchi, L’Aquila 1997, pp.131-137; Dalla preistoria all’epoca italica.

Cenni paleoclimatici ed archeologici dell’area montana di Arischia nell’Amiternino, in AA.VV.

Chiarino, rocce, piante, animali, uomini, L’Aquila 2002, pp.155-185; Prolegomeni e frammenti di storia di un territorio, L’Aquila 2005; Peltuinum. La storia di uno scavo e il palinsesto culturale della chiesa di San Paolo, in AA.VV.

I Campi aperti di Peltuinum dove tramonta il sole…, L’Aquila 2007, pp.207-243.

Annotazione biografica a cura di Goffredo Palmerini

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