Mario Federici, drammaturgo, nasce il 3 giugno 1900 all’Aquila, da Antonio, impiegato dello Stato, e Giuditta Del Giudice, secondo di sette figli, e muore a Roma il 14 novembre 1975
Diplomatosi all'istituto tecnico della sua città, si arruolò volontario nel 1917.
Inviato al fronte come artigliere, vi rimase per un anno.
Nel giugno 1918, nell'ambito di una generale riorganizzazione dei quadri dell'esercito, fu inviato all'Accademia militare di Torino, dove seguì un breve corso per allievi ufficiali; con il grado di sottotenente tornò al fronte.
Rientrò all'Aquila nel 1919 e nello stesso anno s'iscrisse alla scuola di ingegneria dell'università di Roma, dove si trasferì desideroso di uscire dal guscio della provincia.
Qui ebbe modo di conoscere intellettuali di rilievo, come Filippo Tommaso Marinetti, Giacomo Balla, e di partecipare allo stimolante clima culturale di quegli anni.
Si ridestò in lui l'interesse per la poesia e la letteratura, ma soprattutto si avvicinò al teatro, che sarebbe poi diventata la passione dominante della sua vita.
A Roma infatti il teatro viveva un momento particolarmente fecondo: venivano rappresentate opere di autori importanti, quali Luigi Pirandello, Pier Maria Rosso di San Secondo e Maurice Maeterlinck, opere che lasciarono nello spettatore Mario Federici un segno profondo.
Nel 1921 decise di abbandonare gli studi scientifici, verso i quali nutriva una sempre maggiore insofferenza, e fece ritorno all'Aquila, dove conseguì più tardi la licenza liceale e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza.
Contemporaneamente si iscrisse anche al locale fascio di combattimento con altri reduci che, delusi dalla esperienza bellica e dalla politica giolittiana, vedevano nel fascismo emergente un movimento più sensibile ai fermenti sociali e più consono alle loro aspettative.
Ben presto però, amareggiato da contrasti interni al fascio e preoccupato per il delinearsi di una struttura fortemente autoritaria e di una ideologia intrisa di violenza, ne uscì e si allontanò da ogni attività politica.
Maturò quindi la scelta radicale e definitiva di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura e, in uno stato di grande fervore creativo, compose versi, scrisse numerose novelle e abbozzò i suoi primi drammi.
Nel gennaio 1924 si recò a Milano, con la speranza di vedere rappresentato il suo dramma “I parenti poveri”, nella prima versione in un atto.
Ma isuoi tentativi furono vani e Federici si rese conto di quanto fosse arduo far accettare alle compagnie teatrali un testo impegnativo che non rientrasse negli usuali schemi della commedia brillante e sofisticata.
Deluso da tale esperienza rientrò all'Aquila, dove sposò Maria Agamben, intellettuale illuminata, personalità di spicco in campo culturale, politico e sociale, futura Deputata all'Assemblea Costituente per la Democrazia Cristiana, dal 19 luglio 1946 al 31 gennaio 1948 unica donna abruzzese con Filomena Delli Castelli.
Nel 1926 si trasferì con la moglie a Roma, tirando avanti con piccole collaborazioni a vari giornali: Il Giornale d'Italia, La Tribuna, Il Mondo.
Nel frattempo i suoi contatti con il mondo del teatro si intensificarono, finché nel luglio 1926 la compagnia Monaldi mise in scena al Manzoni di Milano “Filantropo d'eccezione”, una favola satirica sul mondo della psicanalisi, che cadde alla prima rappresentazione.
Nel 1928 con “Nebbie”, di cui è andato smarrito il copione, vinse un concorso indetto dal Governatorato di Roma.
L'opera fu premiata per il coraggio civile dell'autore, impegnatosi nel delineare, attraverso il contrasto fra due generazioni, il declino dell'Italia liberale.
Nel 1930 vinse il concorso nazionale indetto dal teatro “Argentina” di Roma: della giuria facevano parte Fausto Maria Martini, Luigi Almirante, Ermete Liberati e Silvio D'Amico, con “I parenti poveri”, seconda versione in tre atti, ivi rappresentata l'anno successivo, 17 aprile, per poche repliche, dalla compagnia di Maria Melato.
Dal 1931 al 1937 seguì la moglie, Maria Agamben, insegnante montessoriana all'estero, ottenendo qualche collaborazione giornalistica, in particolare come corrispondente teatrale per la rivista Scenario.
In questi anni trascorsi tra Barcellona, Il Cairo, Parigi, Vienna, Mario Federici ampliò i propri orizzonti culturali e trasse nuovi stimoli per la sua attività di autore drammatico.
Parallelamente si accentuò in lui un modernissimo senso di sradicamento e di perdita di identità culturale, ciò che costituisce il nucleo originario di quella tematica del "reduce" che tanta importanza ebbe nella sua produzione teatrale.
Tale tematica è sviluppata nella trilogia, cosiddetta della guerra, cui appartengono “Lunga marcia di ritorno”, “Chilometri bianchi” e “Nessuno salì a bordo”.
La prima, rappresentata il 24 febbraio 1936 al teatro Eliseo di Roma con la regia di Anton Giulio Bragaglia e Amedeo Nazzari fra gli interpreti, ebbe un notevole, anche se contrastato, successo di critica e di pubblico.
Tre anni più tardi, il 18 aprile 1939, andò in scena al teatro delle Arti di Roma “Chilometri bianchi”.
Questo periodo, così fecondo e ricco di riconoscimenti fu interrotto allorché venne richiamato alle armi nel 1939: nel 1938, dopo un breve corso, era stato promosso capitano e assegnato alla direzione generale trasporti dello stato maggiore.
Dopo l'8 settembre 1943 prese posizione contro il nazifascismo e, nel gennaio '44, entrò a far parte della Resistenza, dedicandosi ad attività di propaganda e collegamento tra i partigiani durante l'occupazione nazista a Roma.
Al termine del conflitto Mario Federici, decorato con la croce di guerra per l'attività partigiana, si rimise al lavoro con rinnovato entusiasmo e compose “Nessuno salì a bordo”, opera conclusiva della trilogia del reduce, rappresentata al Quirino di Roma dalla compagnia di Tatiana Pavlova il 27 maggio 1949; “Marta la madre”, rappresentata il 10 gennaio 1953 al teatro dei Satiri di Roma con Wanda Capodaglio e “... ovvero il Commendatore” con la quale nel 1954 vinse il premio IDI Saint-Vincent, rappresentata al teatro Sant’Erasmo di Milano dalla compagnia di Carlo Lari il 25 giugno 1954.
Negli anni successivi compose per la RAI alcuni drammi, tra i quali ricordiamo: “Questa mia donna”, “La ballata dei poveri gabbati”, trasmesso il 21 ottobre 1962, “Un garofano rosso” (1970) e Ernesto Rossi.
Morì a Roma il 14 novembre 1975, lasciando incompiuta la sua ultima commedia, “Le piccole libertà”, sul tema della libertà, intesa come fondamentale privilegio umano.
Parallelamente alla sua attività di autore non va dimenticata quella di infaticabile operatore teatrale: nel 1955 assunse la direzione dei gruppi teatrali dell'ENAL (Ente Nazionale Associazione Lavoratori), in seguito ricoprì la carica di segretario generale della Società italiana autori drammatici (SIAD) per venti anni e, dal 1961 al 1965, fu presidente dell'Association internationale du théátre d'amateur, fondata nel 1952, cui sono aggregate le più importanti federazioni nazionali di teatro amatoriale.
Diresse inoltre per dieci anni la rivista “Ridotto”, aperta a tutte le tendenze teatrali.
In ognuna di queste cariche Federici portò la sua esperienza d'autore e l'entusiasmo di chi credeva profondamente nella funzione civilizzatrice del teatro in seno alla società.
Egli incoraggiò la formazione di un repertorio originale italiano e l'attività delle filodrammatiche, intuendo il valore sociale e culturale dei gruppi amatoriali. Spese gran parte delle sue energie nel tentativo di far conoscere i giovani autori italiani, organizzando festival e rassegne, tra le quali ricordiamo i galà del teatro comico a Mantova; "Proposta" per un nuovo teatro a Lucca; il festival nazionale del teatro dialettale a Faenza e ancora rassegne annuali di teatro a Padova, Venezia e Macerata.
Il suo costante e generoso lavoro nell'ambito dell'organizzazione teatrale incentivò un profondo rinnovamento nel teatro amatoriale italiano, che raggiunse una posizione di primo piano anche a livello internazionale.
Figura significativa nel panorama teatrale italiano del Novecento, Mario Federici si colloca nella tradizione più alta della nostra drammaturgia accanto a Ugo Betti e Rosso di San Secondo per la tensione morale ed il lirismo presenti nelle sue opere.
L'anticonformismo programmatico si discosta dalla superficialità delle commedie brillanti e sentimentali allora di moda, per accostarsi a problematiche ben più ardue.
Ne “I parenti poveri”, una delle sue prime pièces, viene affrontato il tema della corruttibilità dell'animo umano: Faustina, la protagonista, è una donna ingenua e di umili origini che, venuta in possesso di una insperata eredità, si trasforma in una figura avida e sinistra, capace persino di uccidere pur di non perdere il denaro.
Innegabili tracce strindberghiane sono presenti in questo dramma borghese e certe cupe atmosfere ci rimandano a Rosso di San Secondo; ma ciò dimostra come l'attenzione di Mario Federici si rivolgesse alle grandi esperienze teatrali del primo Novecento.
L'iniziale vena espressionistica si espande successivamente verso una tematica che supera i confini dell'individualismo per aprirsi ad una prospettiva storica e sociale, giacché le opere successive rappresentano compiutamente la testimonianza di un'epoca vissuta in prima persona.
L'esperienza dei due conflitti mondiali, infatti, influenzò in modo determinante la poetica di Federici che, in particolare nella trilogia della guerra - il momento forse più alto del suo teatro insieme con Marta la madre -, affronta i problemi del "reduce" attraverso un percorso che trascende gradualmente le vicende dell'individuo per assurgere a metafora della condizione umana.
Nella prima opera della trilogia, Lunga marcia di ritorno, viene descritto il contrasto tra Corrado, reduce di guerra, e Benedetto, compagno di trincea, divenuto un facoltoso uomo d'affari.
Il ritrovarsi così diversi provoca una serie di mutamenti: Corrado si corrompe, integrandosi nella brutale realtà capitalistica, mentre Benedetto, dopo una profonda crisi esistenziale, decide di abbandonare tutto per tornare alla terra.
In Chilometri bianchi il protagonista è Marco, un uomo che al termine della guerra, trascorsa in una lunga prigionia, ritorna alla propria realtà e si rende conto che per lui non c'è più posto né in seno alla società, né in famiglia.
L'emarginazione di Marco, personaggio tratteggiato con sincero affiato poetico, assurge così a simbolo dell'esistenza dell'uomo, sempre in cammino alla ricerca di se stesso e di un rapporto pacificato con il mondo che lo circonda.
A dieci anni di distanza con “Nessuno salì a bordo” Mario Federici rende protagonista del dramma una folla anonima di reduci, uomini senza identità che attendono invano d'imbarcarsi, alla ricerca di una nuova patria, su una nave che non salperà mai.
In questa opera corale Mario getta uno sguardo impietoso sulla disastrata realtà sociale degli anni Cinquanta, una realtà disgregata, priva di valori morali e di speranze: tutti "reduci", dunque, accomunati dall'ineluttabile destino dell'uomo.
In “Marta la madre” Federici affronta un tema per certi versi anticipatore di tante odierne polemiche: il contrasto tra il mondo arcaico preindustriale e quello della civiltà capitalistica.
L'auspicato ritorno alla semplicità della vita agricola sottende, nella sua innegabile ingenuità, un intenso desiderio di ritornare alle proprie radici culturali ed etniche e di concludere così il lungo viaggio del "reduce" ritrovando l'innocenza perduta.
In “... ovvero il commendatore” Federici ci offre un'immagine della nostra vita di stampo kafkiano: la misteriosa ed emblematica figura del commendatore che regge le sorti del mondo simboleggia l'invasività angosciosa del potere, nei confronti del quale l'uomo è inevitabilmente succube.
In un mondo in continua trasformazione Mario Federici ha insomma cercato di attingere temi di grande impegno morale e sociale, coltivando coerentemente i suoi interessi, al di là di ogni facile conformismo.
Fra le opere teatrali di Mario Federici, oltre a quelle citate si ricordano: Incontri impossibili, L'amore si acclimata, Un caso dubbio, Notte alta, E cominciò così, Oscuri pregiudizi, Il figlio sulle rovine, Canovaccio per una Galatea, Brocclinbar, Quelli di Montetreboschi, sono tutte raccolte nei due volumi di Teatro, Roma 1976-77.
Si ricorda inoltre il volume di poesie Io come un albero, Rieti 1978, e tre racconti in Istituto di studi pirandelliani, M. F., quad. n. 6: La fuga, pp. 97-104; Povero di spirito, pp. 104-112; Le lettere, pp. 112-116 (Roma 1983).