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Alessandro DommarcoAlessandro Dommarco, poeta dialettale, scrittore, nasce il 4 marzo 1912 a Ortona e muore a Roma il 25 marzo 1997.

di Carlo Maria d’Este*

Il padre Luigi, famoso nel mondo per aver scritto le parole della canzone abruzzese “Vola Vola Vola”, svolse nella vita e nella formazione artistica del figlio Alessandro una funzione basilare di guida.

Perpetrò in lui l’amore per la poesia, per il dialetto e per la città natale, unitamente ad un senso profondo di rispetto verso le cose umili e semplici.

La madre, Annunciata Spinelli, scrittrice e insegnante elementare, contribuì anch’essa in maniera incisiva a far maturare in lui la passione nei confronti della poesia e della letteratura italiana.

Frequentò il Liceo Scientifico a Chieti e durante l’ultimo anno di scuola, nel 1931, pubblicò “Dora”, traduzione dall’inglese di un poemetto di sole dodici pagine in endecasillabi sciolti, opera del poeta Alfred Tennyson.

Il lavoro fu dedicato dallo studente all’insegnante di inglese, Costanza D’Amelio, che seppe trasferire in lui la passione per la lingua di Shakespeare.

Al marzo dello stesso anno risalgono quattro canzoni in dialetto ortonese, evidentemente nate per imitazione dell’attività del padre e rispondenti al clima delle “Maggiolate” di Ortona, scritte a mano in uno «scartafaccio, da dirsi più propriamente grosso libro, di pesante ottima carta, che desiderai –scrisse lo stesso autore – avere per poter tenere insieme raccolti quei componimenti che avevo in animo di trascrivervi di volta in volta così come sarebbero venuti alla luce».

Ancora oggi quello scartafaccio ospita ben 158 componimenti tra esercitazioni di metrica, di rima, di composizione e valide poesie che, per la ritrosia dell’artista alla pubblicazione, non sono state ancora date alla stampa, salvo rare eccezioni.

Del dicembre 1933 è un’opera drammatica in un atto, anch’essa in dialetto ortonese, dal titolo “Za Filumene”, pubblicata postuma nel 2002.

Queste prime opere dialettali resteranno, per molti anni, casi isolati; si potrà infatti parlare di una ripresa della sua attività dialettale solo nel 1970, anno della pubblicazione di “Tembe storte”.

Non isolata invece è la sua produzione in lingua, che iniziata nel 1931 proseguirà ininterrottamente fino alla sua morte avvenuta nel 1997.

Nel 1932, dopo il diploma, Alessandro Dommarco si trasferisce a Roma per intraprendere gli studi universitari e si laurea nel ’36 in Scienze Politiche.

Ciò non gli impedisce di tornare alla sua Ortona nelle ricorrenze più importanti, non saltando nemmeno uno di questi appuntamenti.

Ogni volta è un rituffarsi nella casa paterna che custodisce gelosamente, nel silenzio, un mondo di memorie e di ricordi.

Dopo la laurea intraprese l’insegnamento che abbandonò poi per entrare nella carriera direttiva dello Stato, nel Ministero dell’Industria Commercio e Artigianato, raggiungendo posizioni di alto livello.

Nel 1942, sposa Isabella Renna, insegnante di chimica, dalla quale avrà due figlie, Giovanna e Fausta.

Nonostante i numerosi impegni di lavoro, continua a coltivare sempre i suoi interessi per l’arte e per la poesia, frequentando a Palazzo Marignoli, a Roma, la Federazione Italiana della Stampa e l’Associazione Letture Critiche, diretta da Giuseppe Ungaretti e Umberto Marvardi.

Nel 1951 pubblica “Immagini e Miti” e sei anni dopo diventa direttore responsabile e successivamente anche redattore di “Marsia”, rivista di critica e di letteratura, occupandosi in particolar modo di critica d’arte.

Ne cura anche i “Quaderni”, raccolte di poesie, traduzioni, saggi e scritti vari, di piccole dimensioni ma in compenso molto ben curati sotto l’aspetto tipografico, pubblicati saltuariamente come supplementi ai normali fascicoli della rivista stessa.

Uno dei suoi interessi principali è stata la letteratura francese; nel 1955 dà vita al “Fauno”, una traduzione e interpretazione del “Monologue d’un faune” e di “L’Apres-Midi d’un faune” di Stephane Mallarmé, con note e commenti.

A tutt’oggi è nota la grande difficoltà interpretativa dell’autore francese che dà luogo nelle sue opere a numerosi significati e a soluzioni contrastanti eppure equivalenti o a vere oscurità irresolubili.

Le molte note presenti nella traduzione del Dommarco si discostano, talora in modo rilevante, da quelle correntemente accettate dalla critica precedente; ciò nonostante il suo Fauno è oggi un punto fermo nella storia della critica mallarmeana e in quella dell’assorbimento della sua difficile poesia nel vivo tessuto della nostra tradizione poetica.

Il contatto con l’opera del Mallarmé, in cui nulla nasce da incontri fortuiti ma tutto è determinato da una lucida coscienza e da una ricerca razionalmente posta, e in cui vige l’ideale di perfezione stilistica, svolse un’importante funzione formativa nell’espressione del poeta ortonese.

L’amore per la lingua francese e per la poesia dei suoi più importanti esponenti lo portano inoltre ad essere membro dell’Accademie Racinienne de La Ferte-Milon. Le sue traduzioni appaiono tuttora in varie recensioni letterarie ed antologie scolastiche.

Nel 1959 esce, come supplemento alla rivista “Marsia”, una raccolta di poesie in italiano dal titolo piuttosto significativo, “Frutti avari”, che simboleggia la proverbiale discrezione del poeta, non tanto nel comporre, quanto nel pubblicare le sue opere.

Come già accennato, nel 1970 riprende la produzione dialettale con “Tembe storte”, una suite di ventuno liriche in cui la parlata ortonese, che nella esecuzione paterna appariva come depotenziata e levigata, viene recuperata nella sua autenticità grafica e fonica.

Molte delle opere qui contenute rifluiranno dieci anni più tardi in quello che può essere considerato l’unus liber dell’autore, si tratta appunto di “Da mo’ ve diche addije”.

La raccolta, definita da Emerico Giachery un libro-arca, riconferma l’interesse per la lirica dialettale e mostra il massimo rigore e la consapevolezza scientifica nell’adozione di un lessico arcaico, quasi del tutto scomparso.

Dommarco restituisce alla parola la sua originaria flessione fonica e arricchisce il testo con espressioni di particolare valore storico-linguistico, che possono considerarsi minimi saggi etimologici ed etnologici.

Il metro esclusivo di queste poesie è l’endecasillabo sciolto, a cui gli enjambements molto frequenti conferiscono una fluente flessibilità narrativa.

La sperimentazione dialettale di Alessandro Dommarco non si esaurisce con questo libro, pur così compiuto e definitivo nella sua carriera poetica; nel 1980, infatti, dà alle stampe la versione in dialetto di dodici epigrammi della poetessa greca Nosside, contenuti nell’Antologia Palatina.

Si tratta di un nuovo saggio di fiducia nelle possibilità espressive del dialetto ma anche una prova di virtuosismo letterario, di scavo filologico, da parte del poeta, nel confronto che egli instaura tra le modalità linguistiche, quella del greco antico, quella della lingua italiana e quella del dialetto ortonese con risultati di grande finezza interpretativa.

L’amore per i classici, per il frammento e per la tradizione epigrammatica continua come una nota costante nella sua produzione, tant’è che nel 1987 escono su “Galleria” dodici frammenti di Saffo e nel 1990, su “Abruzzo Letterario”, otto frammenti di Alceo, Anacreonte e Archiloco, tutti in dialetto ortonese.

Nel 1989 fanno seguito due raccolte, entrambe fuori commercio, “Colloqui con Isabella”, interamente dedicata al ricordo della moglie da poco scomparsa, e il “Lamento di Adamo”, comprendente due poesie in italiano e una in vernacolo, a riprova delle identiche possibilità espressive della lingua e del dialetto.

Tempo, vita, morte si intrecciano nelle liriche che sono contrassegnate da uno spirito profondamente unitario, genetico e insieme strutturale.

Nel 1991 esce “Passeggiate ortonesi”, altra opera in dialetto, in cui il poeta conduce quasi per mano il lettore a esplorare la sua città natale, la sua Ortona, che con il suo paesaggio, la sua atmosfera, le sue strade, le sue piazze, i suoi angoli, fa da sfondo topografico e lirico alle vicende umane.

Il libro si presenta molto curato nella sua veste tipografica, impreziosita dai disegni dell’artista Luigi Wilson Farinelli che creano quell’effetto di penombra e di mestizia che si diffonde nelle due lunghe liriche di cui la raccolta è composta.

Nel 1993 pubblica “Pioggia”, una deliziosa plaquette con disegni di Ercole Marchini, composta da otto liriche accomunate dall’unico tema della pioggia e legate da identità di stile, non fosse altro perché tutte scritte tra il 1933 e il 1936. Il ritardo della loro pubblicazione di ben sessanta anni sta soprattutto nella sfiducia dell’autore in un possibile valore poetico delle stesse.

Dalla lettura delle liriche emerge un Dommarco che, poco più che ventenne, lascia intravedere già il poeta di gran talento che in futuro si rivelerà, con una personalità ben connotata, nonostante il sentimento della natura vicino al sensualismo panico del D’Annunzio alcionico.

Alessandro Dommarco muore a Roma il 25 marzo 1997, l’anno successivo all’uscita del volume che vede raccolte insieme tutte le sue liriche in dialetto.

Per il suo carattere schivo e riservato non si conosco molti dettagli documentabili della sua vita privata ma il ritratto vero di Alessandro Dommarco è desumibile dalla sua non vasta ma costante produzione letteraria iniziata nel 1931 e terminata praticamente con la sua morte.

Sicuramente il maggiore poeta abruzzese del Novecento, Dommarco recupera il dialetto nella sua integrità originaria come mezzo espressivo curato nelle minime particolarità fonetiche pur evitando l’appesantimento dei segni diacritici.

Per raggiungere il suo fine non trascura l’esplorazione locale, come l’inchiesta tra vecchi contadini depositari delle antiche locuzioni, e l’uso scientifico del vocabolario dialettale.

Il rischio è quello di riorganizzare una struttura a sé stante, un involucro autonomo paradiso dei dialettologi ma l’abilità del poeta Dommarco consiste proprio nell’evitare la reinvenzione di una lingua morta e distante dall’immediatezza, Dommarco, cioè, trasforma il suo dialetto in strumento di comunicazione di affetti e sentimenti spontanei, profondamente e drammaticamente vissuti.

La sua poesia, colta, trova paradossalmente una misurata grazia nella dimensione cercata, nella consapevolezza che non esiste frattura tra lingua e dialetto.

Con Alessandro Dommarco la poesia dialettale abruzzese raggiunge il massimo grado di saturazione culturale e di coscienza linguistica.

*Centro Regionale Beni Culturali

tutti pazzi per la Civita

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