Benedetto Croce, filosofo, storico, politico, critico letterario, scrittore, nasce il 25 febbraio 1866 a Pescasseroli, comune della provincia dell’Aquila, in Abruzzo, e muore a Napoli il 25 novembre 1952.
Principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano, è un esponente di spicco dello storicismo, concezione per cui «tutta la realtà è concepita come storia, nel senso di un radicale immanentismo» affrancato altresì dal modello concettuale delle scienze della natura.
In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, assieme a Luigi Einaudi.
Con Giovanni Gentile - dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti - è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell'idealismo.
I genitori appartenevano a due agiate famiglie abruzzesi: l'una, quella materna, nativa di Pescasseroli e radicatasi anche in Capitanata e Terra di Lavoro, più legata agli ideali liberali, l'altra, quella paterna, di stampo borbonico, originaria di Montenerodomo, in provincia di Chieti, ma, ancora adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla religiosità tradizionale.
A diciassette anni perse i genitori, Pasquale e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti il 28 luglio 1883 nel terremoto di Casamicciola, nell'isola di Ischia, dove Croce si trovava in vacanza con la famiglia.
Un terremoto disastroso durato 90 secondi - e rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo».
Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Paolo Petroni, la famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro residenza di campagna a San Cipriano Picentino, poco distante da Salerno.
In seguito a questo tragico episodio fu affidato alla tutela dello zio Silvio Spaventa, fratello del filosofo Bertrando Spaventa, che mise da parte i dissapori che aveva con la famiglia Croce e lo accolse nella casa romana dove Benedetto visse fino alla maggiore età.
Nel circolo culturale nella casa dello zio Silvio, Croce ebbe modo di frequentare importanti uomini politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo.
Pur essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola.
Non terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma incomprensibile.
Lasciata la Roma troppo accesa di passioni politiche, Croce nel 1886 tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove aveva trascorso la sua vita Giambattista Vico, il filosofo napoletano amato da Croce per la concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua.
Compì numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra mentre nella sua formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in particolare per la poesia di Giosuè Carducci, e per le opere di Francesco De Sanctis.
Nel 1895, attraverso Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo.
Da Marx risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad approfondire.
Nel gennaio del 1903 uscì il primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Giovanni Gentile, e stampata a sue spese fino al 1906, allorché subentrò l'editore Laterza.
Venne nominato per censo senatore nel 1910 e dal 1920 al 1921 fu ministro della Pubblica Istruzione nel 5º e ultimo governo Giolitti.
Elaborò una riforma della pubblica istruzione che fu poi ripresa ed attuata da Giovanni Gentile.
Il filosofo, nella scelta tra le due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si rivolse alla prima.
Inizialmente affine all'ideologia fascista, nella quale confidava, come molti altri, perché l'Italia potesse effettuare un ritorno all'ordine, Croce ruppe definitivamente col fascismo a seguito del delitto Matteotti, il 10 giugno 1924.
Nello stesso anno interruppe la sua amicizia con Giovanni Gentile, per discrepanze filosofiche e soprattutto politiche.
Gentile, con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925, si era infatti schierato definitivamente dalla parte del fascismo.
Croce rispose aderendo all'invito di Giovanni Amendola, pubblicando a sua volta su Il Mondo il 1º maggio 1925, il Manifesto degli intellettuali antifascisti nel quale veniva denunciata la violenza e la soppressione della libertà di stampa da parte del regime.
Tuttavia nelle votazioni al «Senato del 24 giugno 1925 fu come Gentile e Morello, tra i 225 votanti la fiducia al governo Mussolini.
In seguito Benedetto Croce spiegò in una intervista che il suo non era stato un voto fascista, aveva votato a favore del regime perché pensava che Mussolini, se sostenuto, poteva esser sottratto all'estremismo fascista a cui Croce faceva risalire la responsabilità del delitto Matteotti.»
Il rapporto di Croce con la cultura cattolica variò nel corso del tempo. Agli inizi del Novecento i filosofi idealisti, come Croce e Gentile, avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica al positivismo ottocentesco.
Alla fine degli anni venti vi era stato un progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura cattolica.
L'11 febbraio 1929 la Chiesa con i Patti Lateranensi aveva ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche antifasciste dell'idealismo crociano.
Croce fu contrario al Concordato e dichiarò apertamente in Senato che «accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza.»
Mussolini gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico.
Quando Croce scrisse la Storia d'Europa nel secolo decimonono, il Vaticano criticò aspramente l'autore che difendeva le filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio.
Il Sant'Uffizio pose all'Indice nel 1932 questo libro ma, non ottenendo negli anni successivi da Croce un qualsiasi ripensamento, nel 1934 inserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti.
La posizione personale di Croce nei confronti della religione cattolica è ben espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani", scritto nel 1942.
Contrariamente a quanto fa pensare il titolo, dove pure il termine cristiani era stato inserito tra virgolette, volendo indicare un significato diverso da quello comunemente adottato per la parola, Croce voleva rappresentare la particolare prospettiva che assumeva nella sua analisi il fenomeno del cristianesimo: non si trattava di un'adesione del filosofo agnostico al cristianesimo, come volle fare intendere la propaganda fascista, ma dell'intento di contrastare il neopaganesimo o l’ateismo propagandati dal nazismo e dal comunismo sovietico.
Croce, in sintesi, vede nel cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale ma non ripudia l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella religione un momento della realizzazione storica dello Spirito che si avvia, superandolo, ad una più alta sintesi.
Dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale (1930), si allontanò quindi dalla vita politica, continuando peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse.
In effetti il fascismo riteneva Croce un avversario poco temibile, sostenitore com'era di un fascismo inteso come "malattia morale" inevitabilmente superata dal progresso della storia.
Inoltre la fama di Croce presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime.
Nel 1938 il regime varò la legislazione antisemita. Il governo inviò a tutti i professori universitari un questionario da compilare ai fini della classificazione "razziale". Tutti gli interpellati risposero.
L'unico intellettuale non ebreo che rifiutò di compilare il questionario fu Croce.
Il filosofo, invece di restituire compilata la scheda, inviò una lettera al presidente dell'Istituto Veneto di Scienze, in cui scrisse sarcasticamente:
«Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose?»
Dopo la caduta del regime Croce rientrò in politica, accettando la nomina a presidente del Partito Liberale.
Durante la Resistenza cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti.
Nel 1944 fu Ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio.
Subito dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) entrò a far parte del secondo governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni qualche mese dopo, il 27 luglio.
Al referendum sulla forma dello Stato, il 2 giugno 1946, votò per la monarchia, inducendo tuttavia il Partito Liberale, di cui rimane presidente fino al 30 novembre 1947, a non schierarsi, per far sì che prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la maggioranza legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma nuova della Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente il contributo delle proprie forze.»
Concetti che Croce aveva, nella loro sostanza, già espresso; ben prima che Umberto II, nel messaggio del 13 giugno 1946, ribadisse tale indicazione..
Eletto all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a presidente provvisorio della Repubblica, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita
Si oppose strenuamente alla firma del Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica.
Nel 1946 fondò a Napoli l'Istituto Italiano per gli Studi Storici destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce.
Per un ictus cerebrale, sopravvenuto nel 1949, semiparalizzato si ritirò in casa continuando a studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca il 20 novembre 1952.
L'opera di Croce può essere suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici, letterari e il dialogo con il marxismo, quello della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e quello dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito in chiave storicista.
Parallelamente allo studio del marxismo, Croce approfondisce anche quello di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che continuamente si determina e, in un certo senso, si produce.
Lo spirito è quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente divenendo storia secondo un processo razionale.
Da Hegel egli recupera soprattutto il carattere razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe allora attraverso processi di mediazione dal particolare all'universale, dal concreto all'astratto, per cui Croce afferma che la conoscenza è data dal giudizio storico, nel quale universale e particolare si fondono recuperando la sintesi a priori di Kant e lo storicismo di Giambattista Vico, suo altro filosofo di riferimento.
Tuttavia egli critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre secondo Croce sussiste anche una logica dei distinti, ovvero il fatto che certi atti ed eventi vadano sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri ordini di atti ed eventi.
Elabora, quindi, un vero e proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito.
Qui la realtà in quanto attività (ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale), economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale).
La relazione tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti.
Croce si interessò anche di critica letteraria (saggi su Goethe (1917), Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), "La letteratura della nuova Italia" e "La poesia di Dante") condotta secondo la sua teoria estetica che mirava nel giudizio critico dell'opera letteraria alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione artistica tanto più valida quanto più coerente con le categorie di bello-brutto.
La prima parte della teoria estetica la ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902), Breviario di estetica (1912) e Aesthetica in nuce (1928).
L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si riferisce alle rappresentazioni ed alle intuizioni che noi abbiamo della realtà.
Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché tutte le forme sono presenti insieme nello Spirito.
L'arte, come aspetto dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza, intuizione del particolare che
• come forma dello Spirito, come creatività non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello Spirito rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea;
• come conoscenza (prima forma dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento;
• come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale: compito proprio della filosofia.
L'arte può essere definita quindi come intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.) che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile.
La distinzione tra arte e non arte risiede nel grado di intensità dell'intuizione-espressione.
Tutti noi intuiamo ed esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata.
Coloro che sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si tradurrebbe in espressione.
L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.
Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia.
L'estetica quindi come una "linguistica in generale".
Della logica, Croce tratta essenzialmente in Logica come scienza del concetto puro del 1905; essa corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità universale di una determinazione.
La logica crociana è anche storica, nella misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli oggetti di cui si occupa.
Il termine logica in Benedetto Croce assume quindi un significato più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica.
In genere, la Logica di Croce è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il filosofo raggiunge risultati eccellenti.
Di carattere decisamente diverso è invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali Croce non si occupa affatto nei suoi studi.
Del resto, come segnala Ludovico Geymonat nel suo Corso di filosofia - immagini dell'uomo, «la vera indubbia grandezza di Croce va cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc., che non nella sua opera di filosofo».
In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è stata sviluppata in Italia da altri correnti di pensiero contemporaneo a quello crociano, con studiosi fra quali Giuseppe Peano (1858-1932) e lo stesso Geymonat (1908-1991).
Un orientamento parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura scientifica.
Invece Croce ebbe con la logica e la scienza un rapporto difficile.
La sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella tecnico-scientifica.
Un caso emblematico del giudizio di Benedetto Croce nei confronti della matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il matematico e filosofo della scienza Federigo Enriques, avvenuta il 6 aprile 1911 in seno al congresso della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques.
Questi sosteneva che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche.
La visione di Enriques mal si confaceva a quella idealistica di Croce e Gentile, come pure a gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più formata da idealisti crociani.
Croce, in particolare, rispose ad Enriques, liquidando in modo generico - "antifilosofico", dirà Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi idealisti, come Croce medesimo.
I concetti scientifici non sono veri e propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti pratici di costituzione fittizia.
«La realtà è storia e solo storicamente la si conosce,e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla nell'intrinseco».
Secondo diversi storici e filosofi (es. Giulio Giorello, Enrico Bellone, Armando Massarenti), l'influenza antiscientifica di Croce nel panorama italiano è stata fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si indirizzò prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che tenesse in dovuta considerazione l'importanza della scienza e della tecnica e portando, per conseguenza, ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale.
Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della pratica. Economica ed etica del 1909. Croce dà molto rilievo alla volizione individuale che è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita degli individui.
Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto, quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale.
Croce critica anche l'idea di Stato elaborata da Hegel: lo stato non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche.
L'etica è poi concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito; non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito, che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano.
La teoria di Croce, lo abbiamo visto, è fortemente storicista, come si evince anche da Teoria e storia della storiografia (1917).
Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la filosofia di Croce, questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si dispiega nella sua interezza all'interno della storia.
La storia non è dunque una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione.
La conoscenza storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi.
Si delinea in quest'ottica il compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche (documenti), deve superare ogni forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza.
In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene visione logica della realtà.
Quanto appena affermato si può evincere dalla celebre frase "la storia non è giustiziera, ma giustificatrice". Con questo afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male. Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea, ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da interessi del presente.
La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è conoscenza non astratta, ma di fatti ed esperienze ben precise.
Croce critica gli illuministi e in generale chiunque vorrebbe individuare degli assoluti che regolano la storia o la trascendono: la realtà è storia, nella sua totalità, la storia è la vita stessa, che si svolge autonomamente secondo i propri ritmi e le proprie ragioni.
Essa è un cammino progressivo, ma questa non deve essere una certezza su cui adagiarsi: questa consapevolezza deve essere confermata da un impegno costante degli uomini, e i risultati non sono mai scontati né prevedibili.
La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza.
La libertà si traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione, che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si evince dal volume del 1938 La storia come pensiero e come azione.