Un duello ad alta quota tra ghiacci e tenebre
di Andrea Muratore*
Un enorme tricolore sventola sul versante meridionale dell’Adamello: la grande bandiera issata a sei metri d’altezza a 3.539 metri di quota sulla cima della vetta che domina la Valcamonica celebra dal 2018, centenario della fine della Grande Guerra, l’elezione della montagna bresciana a territorio sacro d’Italia.
L’Adamello fu tra il 1915 e il 1918 teatro delle più estreme azioni condotte da truppe del Regio Esercito e uomini dell’Impero austro-ungarico sul fronte italiano, la “guerra bianca” combattuta tra ghiacci, anfratti delle montagne, tunnel sotterranei e altipiani.
Battaglie ad alta quota caratterizzarono l’intero complesso delle Dolomiti e delle Alpi Retiche meridionali.
Ma nessun versante ebbe la stessa salienza e la stessa continuità di combattimenti in condizioni estreme del versante bresciano dell’Adamello e del prospiciente tratto montano alto-atesino, che segnavano ai tempi il confine di Stato ad alta quota.
Quello che animò la punta nord della provincia di Brescia fu un duello svoltosi su postazioni di roccia e ghiaccio ad oltre 3000 metri di quota, in condizioni ambientali e climatiche difficilissime, su un ristretto fronte che dall’Adamello conduceva al rilievo dell’Ortles-Cevedale attraverso il Passo del Tonale, per tutti i tre anni e mezzo del conflitto tra Roma a Vienna.
L’inferno bianco dell’Adamello
La “guerra bianca” dell’Adamello fu una battaglia tra gelo e tenebre. Una sfida proibitiva ai limiti della sopravvivenza in cui le truppe italiane ed austriache combattevano sia le une contro le altre sia contro il comune nemico delle condizioni naturali avverse.
L’alta montagna era sia fonte di protezione durante le fasi in cui le truppe erano sulla difensiva, offrendo ripari e ancoraggi naturali, che ostacolo per operazioni coperte condotte spesso nelle ore notturne, attraverso una guerra di minature e incursioni che reclamava vittime tra le truppe alpine dei due schieramenti.
Soprattutto, era causa di possibili minacce naturali: l’inferno bianco impose un durissimo tributo di sangue. Il crollo dei seracchi, le tormente di neve, lo sganciamento delle valanghe provocarono decine di migliaia di morti su tutto il fronte alpino e non risparmiò l’Adamello.
Non si contarono le morti per gli inedia e assideramenti legati a un contesto in cui, sopra i 3mila metri di quota, l’inverno poteva durare sino ad otto mesi ininterrotti e portare con sé nevicate abbondanti da ottobre a maggio, con accumuli superiori ai 10 metri in ogni settore.
La temperatura proibitiva oscillava mediamente in questo periodo dai -10° ai -20°, con punte minime di -40°.
Inoltre il sistema medico-sanitario, che pure agiva al massimo delle proprie possibilità ed era considerato all’avanguardia, si trovava a dover gestire con pochissime risorse una logistica complessa, comprendente trasporto, cura e ricovero di migliaia e migliaia di uomini sfiancati da una malattia o feriti da colpi di artiglieria.
Sull’Adamello tutte le azioni italiane condotte dal 4° e dal 5° Reggimento Alpini e dai fanti della 1ª Armata con sede a Verona, furono agli ordini del generale Roberto Brusati prima (1915-1916) e di Guglielmo Pecori Giraldi poi (1916-1918).
Esse tendevano sostanzialmente a scardinare, direttamente o indirettamente, il caposaldo austriaco dei Monticelli, in modo da permettere alle truppe del Regio Esercito di occupare il Passo del Tonale e dominare le vallate alleggerendo i fronti orientali.
Alpini e imperiali, un duello cavalleresco
Gli austriaci, che altrove nel contesto della Gebirskrieg (“guerra di montagna”) avevano provato a muovere all’offensiva, per larga parte del conflitto si mantennero sulla difensiva appoggiandosi alle retrovie della Festung Trient, la fortezza di Trento che dominava il saliente vicino all’Adamello.
Le forze imperiali avevano il proprio nerbo nelle k.k. Gebirgstruppe (Truppe da Montagna), incardinate su battaglioni di fanteria reclutati direttamente nella regione imperiale del Tirolo che conoscevano dettagliatamente il territorio e rafforzate dalle forze della milizia di leva (Standschützen).
Gli austriaci sul fronte dell’Adamello si erano arroccati e, nonostante un rafforzamento delle frontiere minore di quello compiuto sull’Isonzo, avevano comunque disposto trinceramenti e scavato numerose caverne lungo la linea del fronte che collegava i Monticelli alle alture del Tonale orientale, contribuendo anche a consolidare le loro posizioni sui Passi Paradiso, Castellaccio e Lagoscuro che dominavano la conca di Ponte di Legno.
Offensive, colpi di mano, scalate notturne dei canaloni alpini, azioni di incursione si alternarono per tre anni in una guerra sfiancante concentrata in settori ben precisi, in cui ogni picco, ogni crinale, ogni vetta rappresentava un nuovo caposaldo strategico da conquistare e consolidare.
La campagna primaverile del 1916, ad esempio, fu completamente assorbita dall’assalto italiano al Ghiacciaio del Mandrone, compiuto dai montanari lombardi del 4° Alpini, dotati dei più moderni ritrovati tecnologici e estremamente addestrati.
Partendo dal rifugio Giuseppe Garibaldi, ancora oggi crocevia importante per gli alpinisti situato a 2.500 metri di quota sul versante Nord dell’Adamello nel comune camuno di Edolo, gli alpini si impegnarono per settimane nel marzo e nell’aprile 1916 a consolidare le proprie posizioni nella vasta area di “terra di nessuno” che intendevano poter sfruttare.
Il capitano Natale Calvi addestrò i suoi uomini all’utilizzo degli sci facendone il primo reparto d’assalto di alpinisti sciatori, un anticipatore del leggendario battaglione “Monte Cervino”. e guidò di persona una serie di ricognizioni esplorative assieme ai suoi ufficiali e sottufficiali conducendo alla conquista del Monte Fumo, di Cresta Croce e del Ghiacciaio del Mandrone.
Tra l’aprile 1916 e il 1917 la battaglia si concentrò a quote estreme, attorno ai 3.400 metri del Corno di Cavento, occupato dagli italiani ma poi investito dall’azione di numerosi reparti d’assalto austriaci attraverso azioni di incursione, gallerie e assalti contro gli alpini a quote proibitive.
Per più volte la cima del Corno fu contesa tra i due eserciti nel corso di due anni, e gli austriaci desiderosi di contrattaccare utilizzarono anche l’artiglieria pesante, che nel settembre 1917 investì e rase completamente al suolo l’abitato di Ponte di Legno.
Fu questo l’unico episodio veramente controcorrente di una battaglia che, nella sua immensa tragicità, fu condotta da entrambe le parti con valore.
Alpini e Kaiserjäger si fronteggiarono per tre anni e mezzo pagando il rischio di generare valanghe, di cadere vittime delle tormente e di subordinare l’addestramento militare alla preparazione alpinistica e la resistenza fisica.
I soldati nemici erano, sotto il profilo sociale e identitario, molto più simili tra di loro di quanto fossero, sullo stesso fronte, gli uomini provenienti da parti diverse dei rispettivi Stati che si scontrarono sull’Isonzo: uomini di montagna, abituati a obbedire, dotati di un enorme attaccamento alla propria terra e di un grande senso del dovere, che si combattevano con onore e senza odio tenendo quasi sempre comportamenti cavallereschi.
La fine della “guerra bianca”
Nel 1918 il fronte italiano tenne di fronte alle conseguenze della battaglia di Caporetto dopo la quale, nei mesi successivi, il 13 giugno gli austriaci sferrarono un ultimo attacco per cercare di rompere le linee italiane anche sul fronte dell’Adamello.
La Lawine Expedition (“offensiva valanga”) mirava a sfondare le linee del Regio Esercito, portò alla riconquista del Corno nell’ultima vittoria asburgica ma esaurì le forze imperiali, dato che in conseguenza a quanto accaduto sul resto del fronte dopo l’estate si avviò il riflusso.
A inizio novembre, mentre a Vittorio Veneto crollava la resistenza degli imperiali, gli austriaci lasciarono il Tonale. Gli Alpini dilagarono da tutti gli anfratti, il crollo del fronte portò all’abbandono della fortezza di Trento di cui l’Adamello doveva essere l’inespugnabile guardiano.
La “guerra bianca” delle tenebre, dei ghiacci e del silenzioso e muto eroismo degli alpini di entrambi gli schieramenti si concluse lasciando dietro di sé i morti conservati nelle nevi e nei ghiacci, i forti abbandonati e le montagne scavate a perenne memoria del passaggio degli italiani e degli imperiali sulle vette dell’Adamello.
A oltre un secolo di distanza, è difficile trovare nella storia bellica un esempio analogo di combattimenti prolungati condotti in condizioni tanto proibitive per un lasso di tempo tanto lungo. La storia della guerra bianca dell’Adamello desta ammirazione ma anche un pensiero profondo circa l’assurdità tragica che seppe raggiungere la Grande Guerra.
Ma dimostra anche quanto siano vere le parole che, decenni dopo, un grande alpinista come Walter Bonatti pronunciò testimoniando il legame tra uomo e vette: “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”.
E la storia di coloro che si arroccarono sull’Adamello, si identificarono con la sua geografia, subirono le conseguenze della sua natura inclemente lo testimonia.
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