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Il terremoto di Messina del 1908 è considerato uno degli eventi più catastrofici del XX secolo.

Il sisma si verificò il 28 dicembre 1908 alle ore 5:21:42 (ora locale),

Nell'arco di 37 secondi danneggiò gravemente le città di Messina e Reggio.

Metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella della città calabrese perse la vita.

Si tratta della più grave catastrofe naturale in Europa per numero di vittime, a memoria d'uomo, e del disastro naturale di maggiori dimensioni che abbia colpito il territorio italiano in tempi storici.

La notte i sismografi registrarono il verificarsi di un terremoto di grande magnitudo.

Il sisma risultò inquadrabile settorialmente in una zona ubicata in Italia.

Nessuna più precisa informazione al riguardo è tuttavia disponibile, solo rimangono le tracce marcate dai pennini sui tabulati degli osservatori sismici che gli studiosi cominciarono velocemente ad analizzare e interpretare.

I telegrafi infatti cominciarono a ticchettare, i tecnici rimasero allora in attesa di ottenere e scambiare notizie.

Ancora prima di ottenere una qualsivoglia comunicazione ufficiale, molte nazioni del mondo e l'Italia stessa furono informate attraverso la strumentazione scientifica.

I sismografi misero in evidenza solo la grande intensità delle scosse senza consentire agli specialisti di individuare con certezza la specifica localizzazione.

Si potevano solo immaginare i danni provocati da un sisma di quella intensità.

Gli addetti all'osservatorio Ximeniano di Firenze annotarono:

«Stamani alle 5:21 negli strumenti dell'Osservatorio è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione: “Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave.»

Il terremoto ha colpito, con diverse intensità, la Calabria e la Sicilia: l'epicentro è stato registrato nello stretto di Messina con una box sismogenetica attestantesi nelle città di Messina e Reggio Calabria, dove l'intensità MCS è stata pari o superiore a 10.

I territori delle attuali province di Reggio Calabria, di Vibo Valentia, la parte est della provincia di Messina e la parte nord della provincia di Catania sono stati interessati da scosse di intensità MCS pari o superiore a 8; con intensità MCS inferiori a 4 il terremoto è stato registrato anche nella Sicilia occidentale, in Campania, Basilicata e Puglia.

L'area dell'epicentro è una zona a elevata sismicità; risulta infatti colpita da almeno 8 eventi sismici di magnitudo pari o superiore a 6 in epoca storica.

La particolare criticità dell'area è determinata dal fatto che è sede di numerosi centri abitati tra cui due di grandi dimensioni:

  • Messina (147.589 abitanti nel 1901), città portuale della Sicilia, di antichissima origine, è situata sulla costa occidentale dell'omonimo stretto e dista circa 3 km dalla sponda calabrese, fu interessata anche dal terremoto del 1783 che distrusse gran parte della città.
  • Reggio Calabria (77.761 abitanti nel 1901), anch'essa di origini remote e importante in periodo greco e altomedievale, rimase pressoché distrutta dal terremoto del 1783 che determinò la successiva riedificazione di molti dei suoi quartieri secondo un nuovo piano regolatore e con criteri innovativi, che persistono tuttora.

Lunedì 28 dicembre 1908 un terremoto di 7,2 Mw (XI Mercalli) si abbatté violentemente sullo Stretto, colpendo Messina e Reggio in tarda nottata (5:20 ora locale circa).

Uno dei più potenti sismi della storia italiana aveva quindi colto la regione nel sonno, interrotto tutte le vie di comunicazione (strade, ferrovie per Palermo e Siracusa, tranvie per Giampilieri e Barcellona, telegrafo, telefono), danneggiato i cavi elettrici e le tubazioni del gas, e sospeso così l'illuminazione stradale fino a Villa San Giovanni e a Palmi. Con lo strascico di un maremoto, l'evento devastò particolarmente Messina, causando il crollo del 90% degli edifici.

Una recente tesi sostiene che in realtà il maremoto successivo al terremoto sia stato causato da una frana sottomarina e non direttamente dal sisma, frana da posizionarsi, sempre secondo gli stessi studi, tra lo specchio d'acqua di fronte a Giardini Naxos e quello prospiciente il quartiere "Pozzo Lazzaro" di Santa Teresa di Riva.

La relazione al Senato del Regno – datata 1909 – sul terremoto di Messina e Reggio: «Un attimo della potenza degli elementi ha flagellato due nobilissime province – nobilissime e care – abbattendo molti secoli di opere e di civiltà. Non è soltanto una sventura della gente italiana; è una sventura della umanità, sicché il grido pietoso scoppiava al di qua e al di là delle Alpi e dei mari, fondendo e confondendo, in una gara di sacrificio e di fratellanza, ogni persona, ogni classe, ogni nazionalità.

È la pietà dei vivi che tenta la rivincita dell'umanità sulle violenze della terra. Forse non è ancor completo, nei nostri intelletti, il terribile quadro, né preciso il concetto della grande sventura, né ancor siamo in grado di misurare le proporzioni dell'abisso, dal cui fondo spaventoso vogliamo risorgere. Sappiamo che il danno è immenso, e che grandi e immediate provvidenze sono necessarie».

I siciliani e i calabresi vennero immediatamente soccorsi, martedì 29, da navi russe e britanniche che erano alla fonda a Siracusa e ad Augusta, mentre gli aiuti italiani arrivarono poco dopo, nella mattinata del 29 dicembre. Il ritardo fu causato dal fatto che i piroscafi partirono da Napoli, e in tarda serata, subito dopo che le reali notizie sulla catastrofe arrivarono al Governo.

Il futuro premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo (che all'epoca aveva 7 anni) si trasferì a Messina tre giorni dopo il terremoto, perché il padre capostazione fu chiamato a dirigere il traffico ferroviario lì.

Per mesi visse su due vagoni merci, e successivamente rievocò l'esperienza nella poesia Al Padre:

«Dove sull'acque viola

era Messina, tra fili spezzati

e macerie tu vai lungo binari

e scambi col tuo berretto di gallo

isolano. Il terremoto ribolle

da due giorni, è dicembre d'uragani

e mare avvelenato.»

Salvatore Quasimodo: Al Padre

Tra le prime squadre di soccorso che giunsero a Reggio vi fu quella proveniente da Cosenza, guidata dall'esponente socialista Pietro Mancini (padre di Giacomo) che dichiarò:

«Le descrizioni dei giornali di Reggio e dintorni sono al di sotto del vero.

Nessuna parola, la più esagerata, può darvene l'idea. Bisogna avere visto. Immaginate tutto ciò che vi può essere di più triste, di più desolante. Immaginate una città abbattuta totalmente, degli inebetiti per le vie, dei cadaveri in putrefazione ad ogni angolo di via, e voi avrete un'idea approssimativa di che cos'è Reggio, la bella città che fu.»

E ancora i giornali scrissero:

«Oramai non v'è dubbio che, se a Reggio fossero giunti pronti i soccorsi, a quest'ora non si sarebbero dovute deplorare tante vittime.»

«Si è assodato che Reggio rimase per due giorni in quasi completo abbandono. I primi ad accorrere il giorno 28 in suo soccorso vennero a piedi da Lazzaro – insieme al generale Mazzitelli e a poche centinaia di soldati: furono i dottori Annetta e Bellizzi in unione ai componenti la squadra agricola operaia di Cirò, forte di 150 uomini accompagnati dall'avv. Berardelli di Cosenza.

Questa squadra ebbe contegno mirabile e diede aiuto alle migliaia di feriti giacenti presso la stazione. Gli stessi operai provvidero allo sgombero della linea ferroviaria favorendo la riattivazione delle comunicazioni ferroviarie.

Appena giunti furono circondati da una turba di affamati e il pane da essi portato veniva loro strappato letteralmente dalle mani. Sicché essi dovettero patire la fame fino al giorno 30 quando cominciò l'arrivo delle navi.»

A Messina, maggiormente sinistrata, rimasero sotto le macerie ricchi e poveri, autorità civili e militari: morirono il questore Paolo Caruso, il generale Cotta e il procuratore generale dott. Crescenzo Grillo, l'ex rettore dell'Università Giacomo Macrì, tre deputati (gli onorevoli Giuseppe Arigò, Nicolò Fulci (già ministro) e Giuseppe Orioles); perirono altresì più della metà dei componenti del consiglio comunale.

Quasi completamente annientata la presenza delle forze dell'ordine, assieme al questore Caruso morirono più di tre quarti degli agenti di polizia; dalla caserma della Guardia di Finanza, su 200 finanzieri, ne uscirono vivi solo 41.

Nella stazione ferroviaria, di 280 tra gli impiegati alle officine e il personale viaggiante solo in otto risposero all'appello. Dal totale crollo del cinquecentesco Ospedale Civico, su circa 200 tra pazienti, medici e infermieri, vi furono solo 11 superstiti.

Gaetano Salvemini, dal 1901 professore di storia contemporanea presso l'Ateneo messinese, perse la moglie, i cinque figli e la sorella, rimanendo l'unico sopravvissuto di tutta la sua famiglia.

Il prefetto Adriano Trinchieri (1850-1936) venne ritrovato miracolosamente illeso tra le macerie del palazzo della prefettura, illeso rimase anche l'arcivescovo Letterio D'Arrigo Ramondini, fratello del sindaco Gaetano D'Arrigo Ramondini che, rimasto anch'egli incolume, fuggì dalla città, rendendosi irreperibile per almeno un giorno.

Nella nuvola di polvere che oscurò il cielo, sotto una pioggia torrenziale e al buio, i sopravvissuti inebetiti dalla sventura e semivestiti non riuscirono a rendersi conto immediatamente dell'accaduto.

Alcuni si diressero verso il mare, altri rimasero nei pressi delle loro abitazioni nel tentativo di portare soccorso a familiari e amici. Qui furono colti dalle esplosioni e dagli incendi causati dal gas che si sprigionò dalle tubazioni interrotte.

Tra voragini e montagne di macerie gli incendi si estesero, andarono in fiamme case, edifici e palazzi ubicati nella zona di via Cavour, via Cardines, via della Riviera, corso dei Mille, via Monastero Sant'Agostino.

Ai danni provocati dalle scosse sismiche e a quello degli incendi si aggiunsero quelli cagionati dal maremoto, di impressionante violenza, che si riversò sulle zone costiere di tutto lo Stretto di Messina con ondate devastanti stimate, a seconda delle località della costa orientale della Sicilia, da 6 m a 12 m di altezza (13 metri a Pellaro, frazione di Reggio).

Il maremoto provocò molte vittime, fra i sopravvissuti che si erano ammassati sulla riva del mare, alla ricerca di un'ingannevole protezione.

Improvvisamente le acque si ritirarono e dopo pochi minuti almeno tre grandi ondate aggiunsero altra distruzione e morte.

Onde gigantesche raggiunsero il litorale spazzando e schiantando quanto esistente. Nel suo ritirarsi la marea risucchiò barche, cadaveri e feriti.

Molte persone, uscite incolumi da crolli e incendi, affogarono trascinate al largo.

Alcune navi alla fonda furono danneggiate, altre riuscirono a mantenere gli ormeggi entrando in collisione l'una con l'altra, ma subendo danni limitati.

Il villaggio del Faro a pochi chilometri da Messina andò quasi integralmente distrutto.

La furia delle onde spazzò via le case situate nelle vicinanze della spiaggia anche in altre zone. Le località più duramente colpite furono Pellaro, Lazzaro e Gallico sulle coste calabresi; Briga e Paradiso, Sant'Alessio e fino a Riposto su quelle siciliane.

A Reggio andarono distrutti diversi edifici pubblici. Caserme e ospedali subirono gravi danni: 600 le vittime del 22º fanteria dislocate nella caserma Mezzacapo; all'Ospedale Civile su 230 malati ricoverati se ne salvarono solo 29.

A Palmi la scossa fu altrettanto rovinosa, causando circa 700 morti e un migliaio di feriti. Il centro abitato era composto da 2221 case (molte delle quali con pessimi sistemi di costruzione) delle quali 445 crollarono, 1189 restarono gravemente danneggiate e in 387 si ebbero danni lievi.

Andarono distrutte inoltre la chiesa di San Rocco, il Duomo e diversi edifici pubblici.

A Polistena il tragico evento fece registrare 6 morti, 30 feriti, e moltissimi edifici danneggiati e anche completamente distrutti; su 2.257 case che componevano la località 52 crollarono, 53 risultarono gravemente lesionate e in 204 si registrarono lievi danni.

Tra le chiese, i danni maggiori si ebbero alla Chiesa della Trinità con il crollo del tetto, alla Chiesa dell'Immacolata con il crollo parziale della facciata, e al Duomo di Santa Marina Vergine che, a causa degli ingenti danni subiti nell'intero edificio, fu sul punto di venire abbattuto per poi invece essere sottoposto a un radicale restauro molti anni dopo.

Anche nei pressi di Catanzaro, in particolare a Tiriolo, si ebbero molti danni ma pochi decessi, data la modesta dimensione delle abitazioni.

In Sicilia si ebbero crolli anche a Maletto, Belpasso, Mineo, San Giovanni di Giarre, Riposto e Noto.

A Casalvecchio Siculo cadde parte della seicentesca Chiesa Matrice; a Savoca crollò la sede municipale, un palazzo trecentesco chiamato altresì Curia. A Santa Teresa di Riva crollò il campanile della chiesa del Carmine. A Caltagirone crollò per metà il quartiere militare.

Nel comprensorio jonico siciliano, si tramandano ancor oggi alcuni aneddoti storici legati al terremoto, molti di essi tramandati quasi esclusivamente per via orale endo-familiare. Proprio a Sant'Alessio Siculo si narra di una barca trasportata dalla drammatica ondata dalla spiaggia fino all'entroterra di Giampilieri; nell'abitato di Locadi, oggi minuscola frazione di Pagliara, il vecchio borgo fu interamente interessato da crolli e lesioni, tanto che di colpo l'intera popolazione riparò nella spianata soprastante (oggi zona Polifunzionale), per poi riedificare ex novo il borgo più a ovest. A Santa Teresa di Riva la toccante testimonianza dei primi a svegliarsi e a correre in spiaggia subito dopo il maremoto, letteralmente montagne di cicirelli sulla battigia (pesciolino commestibile siluriforme, di circa 10 cm.) impedivano la vista dell'antistante costa calabra. Nei mesi successivi, sempre a Santa Teresa di Riva, alcune batterie di baracche furono allestite dove oggi sorge il quartiere di Torrevarata.

Drammatico fu il problema del mantenimento dell'ordine pubblico già subito dopo la scossa; ad esempio una banda di detenuti evasi, scampata al crollo delle carceri giudiziarie, prese di mira le rovine della Banca d'Italia e del Palazzo dei Tribunali allo scopo di penetrare nel caveau della prima e di bruciare l'archivio del secondo.

La colossale domanda di manovalanza nelle settimane e mesi immediatamente successivi, coinvolse alcuni operai che dalla provincia si recavano quotidianamente nella Messina da ricostruire, senza volontà o capacità operativa alcuna, ma con la macabra determinazione di recuperare monili, denti d'oro e quant'altro potesse emergere dalle macerie ancora zeppe di cadaveri.

Messina, che all'epoca contava circa 140.000 abitanti, ne perse circa 80.000 e Reggio Calabria registrò circa 15.000 morti su una popolazione di 45.000 abitanti. Secondo altre stime si raggiunse la cifra di 120.000 vittime, 80.000 in Sicilia e 40.000 in Calabria.

Altissimo fu il numero dei feriti e catastrofici furono i danni materiali. Le scosse di assestamento si ripeterono con frequenza nelle giornate successive e fin quasi alla fine del mese di marzo 1909.

Molte delle monumentali costruzioni dei centri urbani subirono danni che, pur se non irreparabili, comportarono la loro demolizione per l'attuazione dei piani regolatori redatti dagli ingegneri Borzì e De Nava.

Essi previdero la realizzazione di città quasi totalmente nuove, con palazzi di modesta altezza (non più di due o tre piani, anche per quelli pubblici) e lunghe strade larghe e diritte con una pianta ortogonale.

Il piano regolatore dell'ingegnere Luigi Borzì prevedeva, per la città di Messina, un acquedotto della portata di quindicimila metri cubi d'acqua al giorno. La città veniva inoltre delimitata a ovest dalle pendici dei Peloritani, a sud dal torrente Gazzi e dalla Zona industriale, e a nord dal torrente Annunziata.

Numerose furono le costruzioni vittima dei danni del terremoto e delle successive demolizioni:

  • A Messina l'imponente Palazzata o Teatro marittimo, lunghissima teoria di palazzi senza soluzione di continuità affacciata sul porto (opera seicentesca dell'architetto Simone Gullì e poi ricostruita, dopo il terremoto del 1783, dall'architetto Giacomo Minutoli); il ricchissimo Palazzo Municipale, opera seicentesca di Giacomo Del Duca, incluso nella Palazzata; il palazzo della Dogana, costruito sui resti del Palazzo reale, a sua volta crollato nel terremoto del 1783; tantissime chiese, tra cui quella di San Gregorio, nella parte collinare della città sopra la via dei Monasteri (oggi via XXIV Maggio), quella della SS. Annunziata dei Teatini, opera di Guarino Guarini e la concattedraledell'Archimandritato del Santissimo Salvatore, ricostruita nel XVI secolo da Carlo V alla foce del torrente Annunziata, sul posto dell'attuale Museo regionale; il Duomo, ricostruito poi dall'architetto Valenti secondo le linee presunte dell'originaria struttura normanna e molti edifici pubblici; la sede della storica Università, fondata come primo collegio gesuitico al mondo nel 1548.
  • A Reggio la lunghissima Real Palazzina, costituita da un continuo susseguirsi di eleganti edifici napoleonici, affacciata sull'antico lungomare; l'imponente Palazzo San Giorgio (Palazzo Municipale), poi ricostruito dall'architetto Ernesto Basile; l'elegante Villa Genoese-Zerbi, esempio di barocco seicentesco della città; gli importanti palazzi Mantica, Ramirez e Rettano; moltissime chiese e basiliche tra cui il ricchissimo Duomo barocco, che ricostruito divenne l'edificio sacro più grande della Calabria; l'antica basilica bizantina della Cattolica dei Greci; le fontane monumentali sul lungomare e un gran numero di importanti edifici pubblici e privati.

Le due città persero gran parte della propria memoria storica. Alcuni edifici vennero letteralmente polverizzati, mentre la popolazione che vi abitava, colta dal sisma nelle ore notturne, non ebbe il tempo di mettersi in salvo.

Nel porto di Reggio la linea ferrata costiera venne divelta e molti vagoni furono ripescati in mare.

A Messina, sede della 1º squadriglia torpediniere della Regia Marina, si trovarono ancorate nel porto le torpediniere "Saffo", "Serpente", "Scorpione", "Spica" e l'incrociatore "Piemonte"; a bordo di quest'ultimo un equipaggio di 263 uomini tra ufficiali, sottufficiali e marinai. Alle otto del mattino della stessa giornata del 28, la "Saffo", riuscì ad aprirsi un varco fra i rottami del porto. I suoi uomini e quelli della Regia Nave "Piemonte" sbarcarono dando così inizio alle opere di soccorso. Furono accolte immediatamente oltre 400 tra feriti e profughi, che furono successivamente trasportati via mare a Milazzo. Non fu possibile ritrovare vivo il comandante della "Piemonte", Francesco Passino, sceso a terra nella serata precedente per raggiungere la famiglia e deceduto unitamente alla stessa a causa dei crolli.

A bordo dell'incrociatore, raggiunto da alcuni ufficiali dell'esercito sopravvissuti al disastro e in accordo con le autorità civili, furono assunti i primi provvedimenti per raccogliere e inquadrare il personale disponibile, informare dell'accaduto il Governo e chiedere rinforzi.

Allo scopo l'incarico fu attribuito al tenente di vascello A. Belleni che con la sua torpediniera, la "Spica" e altre unità lasciò il porto di Messina, nonostante le cattive condizioni del mare. Da Marina di Nicotera nel primo pomeriggio riuscì a trasmettere un dispaccio telegrafico. Il messaggio arrivò a Roma dopo tre-quattro ore, non si sa perché (forse le linee telegrafiche erano parzialmente danneggiate, nel tratto a nord di Nicotera). Dello stesso fu poi data comunicazione anche al ministro delle Marina:

«Oggi la nave torpediniera Spica, da Marina di Nicotera, ha trasmesso alle ore 17,25 un telegramma in cui si dice che buona parte della città di Messina è distrutta. Vi sono molti morti e parecchie centinaia di case crollate. È spaventevole dover provvedere allo sgombero delle macerie, poiché i mezzi locali sono insufficienti. Urgono soccorsi, vettovagliamenti, assistenza ai feriti. Ogni aiuto è inadeguato alla gravità del disastro. Il comandante Passino è morto sotto le macerie.»

A Roma i quotidiani del pomeriggio riportavano ancora la notizia vaga di "alcuni morti in Calabria per un terremoto". La prima notizia ufficiale delle vere dimensioni del disastro giunse quindi con il telegramma trasmesso da Marina di Nicotera dal comandante della torpediniera "Spica". Altre ne seguirono da diverse località e strutture dando un'idea approssimativa della catastrofe. Nella stessa serata del 28, riunito d'urgenza il Consiglio dei ministri, il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti esaminò la situazione emanando di concerto le prime direttive del Governo.

Il Comando di Stato Maggiore dell'esercito mobilitò gran parte delle unità presenti sul territorio nazionale. Il Ministro della Marina ordinò alla divisione navale in navigazione nelle acque della Sardegna, composta dalle corazzate "Regina Margherita", "Regina Elena", "Vittorio Emanuele" e dalla corazzata "Napoli" di cambiare rotta e dirigersi verso la zona disastrata. Il ministro dei Lavori Pubblici Pietro Bertolini partì subito per Napoli da dove, imbarcatosi sull'incrociatore "Coatit", raggiunse Messina.

Anche il Re e la Regina partirono il 29 per Napoli; saliti poi sulla "Vittorio Emanuele", in sosta per caricare a bordo anche materiale sanitario e generi di conforto, raggiunsero la Sicilia nelle prime ore del giorno 30.

Ma già all'alba del 29 la rada di Messina si era affollata. Una squadra navale russaalla fonda ad Augusta si era diretta a tutta forza verso la città con le navi "Makaroff", "Guilak", "Korietz", "Bogatir", "Slava" e "Cesarevič". Subito dopo fecero la loro comparsa le navi da guerra britanniche "Sutley", "Minerva", "Lancaster", "Exmouth", "Duncan", "Euryalus". Il comandante russo ammiraglio Ponomarëv fece approntare i primi soccorsi, prestando anche opera di ordine pubblico contro gli sciacalli che vennero spesso fucilati dopo processi sommari, resi difficili anche a causa delle incomprensioni linguistiche .

Le navi italiane giunte il giorno 30 si ancorarono in terza fila. Nonostante la sorpresa nessuno reagì più di tanto anche se, qualche tempo dopo, la stampa intervenne polemicamente.

Messe in mare le scialuppe anche gli equipaggi italiani furono sbarcati e impiegati secondo le esigenze del caso. Il Re e la Regina arrivarono all'alba del 30. Con una lancia a motore, accompagnati dai ministri Bertolini e Orlando, percorsero la costa per poi fare ritorno a bordo della loro nave.

La Regina rimasta sulla corazzata contribuì con grande impegno alla cura degli infermi, mentre il Re raggiunse la terraferma per portare alle truppe italiane e straniere, impegnate nelle difficili operazioni di prima assistenza, le proprie espressioni di elogio e riconoscenza.

Le navi da guerra, trasformate ormai in ospedali e trasporti, caricati i feriti fecero poi la spola con Napoli e altre città costiere, occupandosi anche di trasferire le truppe già concentrate nei porti e in attesa di destinazione. Cominciò l'afflusso di uomini tra cui i Carabinieri delle legioni di Palermo e di Bari e molteplici reparti dell'esercito. A chi arrivò di notte la città di Messina apparve illuminata dagli incendi che continuarono per parecchi giorni.

La Regia Nave "Napoli" da Messina si trasferì a Reggio. Il suo comandante Umberto Cagni, assunto provvisoriamente il comando della "piazza" e delle operazioni di soccorso, sbarcò i marinai della nave per organizzare l'assistenza e impiantare un primo ospedale da campo destinato alla medicazione dei feriti leggeri. Quelli più gravi furono trasportati a bordo.

Il Cagni divise poi la città in varie zone assegnandole agli uomini della "Napoli" e alle truppe dell'esercito già disponibili in loco tra cui i superstiti del 22º fanteria e alcuni distaccamenti del 2º bersaglieri sopraggiunti nel frattempo. I marinai assieme ad alcuni nuclei di carabinieri organizzarono pattuglie di ronda con lo scopo di provvedere alle esigenze di pubblica sicurezza.

Le prime edizioni dei giornali riportarono dati sintetici e quelle successive diedero notizie più certe e particolareggiate.

Il Corriere della Sera, il giorno 30, uscì con il titolo: "ORA DI STRAZIO E DI MORTE. Due città d'Italia distrutte. I nostri fratelli uccisi a decine di migliaia a Reggio e Messina".

L'Italia seppe così che a Reggio e a Messina, interi quartieri erano crollati, che sotto le macerie di case, ospedali e caserme erano scomparsi interi nuclei familiari, malati, funzionari, guardie e soldati. Venne inoltre a conoscenza della meravigliosa gara di solidarietà internazionale apertasi tra navi straniere e italiane per portare aiuto ai superstiti e trasportare sui luoghi colpiti dal sisma i materiali e gli uomini necessari.

Il mondo intero si commosse: capi di Stato, di Governo e Papa Pio X espressero il loro cordoglio e inviarono notevoli aiuti anche finanziari.

Unità da guerra francesi, tedesche, spagnole (incrociatore "Princesa de Asturias"), greche e di altre nazionalità lasciarono i loro ormeggi e, raggiunte le due sponde dello stretto, misero a disposizione i propri equipaggi per provvedere a quanto necessario.

In tutta Italia, oltre agli interventi organizzati dalla Croce Rossa e dall'Ordine dei Cavalieri di Malta, si formarono comitati di soccorso per la raccolta di denaro, viveri e indumenti. Da molte province, partirono squadre di volontari composte da medici, ingegneri, tecnici, operai, sacerdoti e insegnanti per portare, nonostante le difficoltà di trasferimento esistenti, il loro fattivo sostegno alle zone terremotate. Anche le Ferrovie dello Stato inviarono proprio personale: tra questi Gaetano Quasimodo, che raggiunse Messina con al seguito la famiglia e in particolare il figlioletto di soli 7 anni Salvatore, futuro Premio Nobel per la letteratura.

Per il suo grande impegno, nel 2006, alla marina zarista è stata dedicata una via da parte del comune di Messina.

La Regia Marina italiana venne duramente criticata (oltre che per i suoi ritardi rispetto ad alcune marine straniere), perché ci furono testimoni oculari che videro alcuni marinai italiani rubare oggetti e gioielli rinvenuti tra le macerie.

Re Vittorio Emanuele III sbarcò a Messina la mattina del 30 dicembre 1908, accompagnato dalla Regina Elena e dai ministri Vittorio Emanuele Orlando, Carlo Mirabello e Pietro Bertolini. Sulla banchina del porto (dinnanzi alle rovine della Palazzata), erano attesi dal Prefetto Adriano Trinchieri e dal Sindaco di Messina Gaetano D'Arrigo Ramondini.

Il sindaco D'Arrigo per nulla intimorito, si rivolse al sovrano dicendo che l'aiuto era giunto ai messinesi dai russi, e non dagli italiani. Il Re lo interruppe dicendo "E lei si fa vivo adesso che tutto è finito?".

Infatti poco prima il prefetto della città, Trinchieri, gli aveva comunicato che il sindaco era scappato, preso dal terrore, e per un giorno si era reso irreperibile. D'Arrigo venne immediatamente destituito, sia per la fuga sia per l'irriverente polemica. Venne proclamato lo stato d'assedio e furono conferiti i pieni poteri al generale Francesco Mazza.

Il re ritenne opportuno indirizzare il 5 gennaio 1909 un proprio ordine del giorno di elogio al personale italiano e straniero, sempre impegnato con grave sacrificio nell'adempimento dei compiti assegnati:

«All'Esercito ed all'Armata,

Nella terribile sciagura che ha colpito una vasta plaga della nostra Italia, distruggendo due grandi città e numerosi paesi della Calabria e della Sicilia, una volta di più ho potuto personalmente constatare il nobile slancio dell'esercito e dell'armata, che accomunando i loro sforzi a quelli dei valorosi ufficiali ed equipaggi delle navi estere, compirono opera di sublime pietà strappando dalle rovinanti macerie, anche con atti di vero eroismo, gli infelici sepolti, curando i feriti, ricoverando e provvedendo all'assistenza ai superstiti.

Al recente ricordo del miserando spettacolo, che mi ha profondamente commosso, erompe dall'animo mio e vi perdura vivissimo il sentimento di ammirazione che rivolgo all'esercito ed all'armata. Il mio pensiero riconoscente corre pure spontaneamente agli ammiragli, agli ufficiali ed agli equipaggi delle navi russe, inglesi, germaniche e francesi che, mirabile esempio di solidarietà umana, recarono tanto generoso contributo di mente e di opera.»

L'8 gennaio 1909 si riunì la Camera dei deputati per esaminare alcuni provvedimenti urgenti di natura giuridica e finanziaria a favore delle località danneggiate.

Accolte le proposte di nuove imposte e di stanziamenti importanti per la ricostruzione, il 12 gennaio il Senato approvò a sua volta all'unanimità il progetto di legge a favore di Messina e di Reggio. Associandosi alle parole del Re emanò un proprio ordine del giorno:

«Il Senato nell'intraprendere, col pensiero alla patria, l'esame dei provvedimenti intesi a risollevare le sorti delle province di Messina e di Reggio Calabria, rende omaggio e riverente plauso alle LL.MM. il Re e la Regina, a S. Maestà la Regina Madre ed ai Principi Reali, primi a portar sollievo al luogo del disastro; al Governo, all'esercito, alla nostra marina, alle Nazioni ed alle marine straniere, che con generosa abnegazione si adoprarono a riparare l'immensa sciagura che commosse tutte le genti civili. »

Alcune testate giornalistiche, criticando i provvedimenti finanziari adottati e in particolare l'inasprimento delle tasse, accusarono il governo di aver speso molto e destinato male i fondi raccolti in occasione dei terremoti degli anni precedenti senza peraltro portare benefici alle popolazioni danneggiate.

Altri giornali, tra cui Il Tempo, attribuirono ai Comandi militari gravi colpe: la parziale incapacità nella gestione degli interventi di soccorso, confusione burocratica e ritardi nella distribuzione locale delle risorse, inefficienza e ritardi anche nelle azioni di recupero e riconoscimento delle salme. Ulteriori attacchi furono portati contro la Marina italiana, giudicata meno sollecita e pronta rispetto alla capacità e alla funzionalità dimostrata dalle squadre navali straniere.

Il Giornale di Sicilia lamentò manchevolezze nella distribuzione di viveri e di generi di conforto, nonché difficoltà procedurali nell'erogazione degli aiuti.

Il presidente del Consiglio Giolitti, pur non negando eventuali e possibili disfunzioni nella catena di comando e nell'organizzazione dei soccorsi, difese le strutture e portò come scusante l'immensità del sinistro, peraltro imprevedibile anche nei suoi effetti collaterali. Il ministro della Marina Carlo Mirabello dichiarò calunnioso e strumentale ogni paragone con l'azione ampiamente meritoria di ufficiali e marinai del naviglio straniero.

Nel contempo al ministro della guerra, Casana, fu richiesto di recarsi a Reggio, a Messina, a Palmi e nel circondario per verificare di persona le accuse mosse dalla stampa contro l'operato dell'esercito.

Al suo rientro il 16 gennaio 1909, al fine di cancellare il discredito portato alle risorse umane ancora duramente impegnate nell'emergenza, aggiunse il suo elogio a quello espresso dal Re e dal Parlamento:

«Al momento di lasciare questi luoghi terribilmente provati dalla sventura, invio a tutti gli appartenenti all'esercito, che hanno qui dato il generoso concorso dell'opera loro, il mio generoso saluto.

A quanti, superstiti al disastro, hanno concorso fino dal primo momento e con sereno eroismo alla grave e pietosa opera di soccorso, dimostrando all'evidenza che le più terribili prove non abbattono l'animo del soldato italiano, non ne diminuiscono l'energia e non gli tolgono la fede nell'avvenire, giunga il tributo della mia viva ammirazione.

Ad essi e a coloro che, inviati qui da ogni parte d'Italia, hanno fatto a gara, col più generoso entusiasmo, per rispondere all'appello della patria, siano di giusto premio la lode di S.M. il Re ed il plauso della Nazione, di cui fu autorevole interprete il Parlamento.

Un esercito nel quale sono così profondamente radicati il sentimento della fratellanza nazionale ed una illimitata abnegazione nell'adempimento del dovere, dà giusta ragione di una piena fiducia nei destini avvenire d'Italia.»

Successivamente furono forniti dati e statistiche sulle persone ritrovate vive sotto le macerie per un totale di circa 17.000 persone di cui: 13.000 circa salvate dai militari italiani, 1.300 dai russi, 1.100 dagli inglesi e 900 dai tedeschi.

Con riguardo alle operazioni di trasporto della Marina militare le informazioni trasmesse diedero per certo, alla data del 2 gennaio 1909, il trasferimento nei vari ospedali di circa 10.300 feriti, mentre altri 1.200 furono movimentati dalla marina inglese e circa 1.000 da quella russa.

Furono rese note le perdite subite dal personale dell'esercito, della Marina e di altre armi, alcune delle quali avvenute nel corso delle operazioni di soccorso: complessivamente circa 1.000 uomini di cui un centinaio della Marina.

Ampio risalto fu dato all'impegno profuso dal Re, dalla famiglia reale, e in particolare a quello assistenziale reso nell'occasione dalla regina Elena.

Le cronache scandalistiche e le accuse in esse riportate si ridussero in poco tempo a poche righe marginali, per poi esaurirsi del tutto in mancanza di elementi su cui fondare la critica. Nello stesso periodo di tempo il Danzer's Armée Zeitung, giornale viennese vicino agli orientamenti dei vertici militari imperiali, in un articolo sostenne che l'Austria-Ungheria avrebbe dovuto trarre occasione dalla difficile situazione, causata dal terremoto di Reggio e Messina, per scatenare una guerra preventiva contro l'Italia.

L'incidente si risolse diplomaticamente in breve tempo, ma tutto fu solo rimandato di sette anni alla Prima guerra mondiale.

Assicurate attraverso i dispositivi di legge le risorse finanziarie e giunti importanti aiuti da varie parti del mondo, furono analizzate le ipotesi di intervento per una riedificazione. A un primo suggerimento di demolire completamente quanto rimasto di Messina e costruirla in altra zona gli abitanti si ribellarono.

Abbandonato il progetto fu iniziato lo sgombero delle macerie, la demolizione degli edifici inagibili, il ripristino dei servizi essenziali e delle case ancora in parte o in tutto abitabili. Istituite apposite commissioni, fu rivisto il piano di urbanizzazione, identificando criteri più idonei per le nuove edificazioni e richiedendo tra l'altro l'adozione di metodologie costruttive antisismiche.

Per fare fronte ai più immediati fabbisogni della popolazione si diede avvio alla costruzione di baracche di legno che sostituirono o si aggiunsero alle tendopoli. Sorsero quindi quartieri provvisori denominati statunitense, lombardo, svizzero, tedesco, ecc. in segno di riconoscenza verso i paesi che con i loro aiuti ne agevolarono la realizzazione; un quartiere fu intestato anche alla regina Elena.

I lavori non procedettero speditamente, dando origine a nuove polemiche contro il Governo e a nuovi corsivi dei giornali, tra cui anche quelli pubblicati dalla "Domenica del Corriere" che uscì nel febbraio 1909, lamentando lentezze burocratiche e illustrando come sempre la sua edizione con una delle prestigiose tavole di Achille Beltrame.

Come in altre occasioni nel maggio 1909 il Governo decise di ricompensare con specifica attestazione civili, militari, enti e organizzazioni umanitarie impegnate nelle operazioni di soccorso, testimoniando così le particolari benemerenze acquisite dalle stesse nell'opera assistenziale svolta a favore dei terremotati.

Vittorio Emanuele III emanò in data 6 maggio 1909, con il numero 338, un regio decreto con il quale furono fissate le modalità di concessione di una speciale medaglia di benemerenza, in due formati diversi e in tre gradi, da attribuire a enti, nel formato grande, e alle persone nel formato piccolo, in quanto segnalate e riconosciute meritevoli della concessione da una speciale commissione all'uopo nominata.

L'art. 3 del regio decreto fu poi varato con quello del decreto del 21 ottobre 1909 n. 719, che modificò i colori del nastro di sospensione precedentemente stabiliti nella nuova tonalità verde orlata di bianco.

Venne poi approvata la legge 21 luglio 1910, n. 579, che convertì in legge i regi decreti relativi al terremoto del 28 dicembre 1908, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 196 del 23 agosto 1910.

La maggioranza delle baracche furono abitate per decenni prima che il processo di vera e propria ricostruzione fosse completato, ed alcune sono tuttora occupate dagli eredi dei sopravvissuti.

La Marina Italiana venne duramente criticata per i ritardi dei suoi soccorsi (anche in confronto ad alcune marine straniere), per gli atti di sciacallaggio di cui alcuni suoi marinai furono protagonisti.

La ricostruzione fu anche criticata a causa della sua lentezza, della mancata antisismicità delle case costruite dopo il terremoto e per il fatto alcuni eredi dei sopravvissuti vivono nelle baracche.

tutti pazzi per la Civita

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